“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale” è un testo ormai datato. Scritto da Frederick Jacobus Johannes Buytendijk (1887-1974), antropologo, biologo e psicologo olandese, nel 1962 rimane un testo affascinante per diversi aspetti e, nonostante la psicologia comparata e in generale gli studi sul comportamento animale abbiano fatto passi da gigante da allora, vi si possono leggere note importanti soprattutto di carattere epistemologico e metodologico.

Così come fa l’autore nel testo, partiamo da una chiarificazione: la psicologia comparata non si occupa di ciò che uomini o altri animali hanno ‘nella mente’, ma “ha il compito di ricercare, cioè di descrivere e spiegare le affinità, le analogie e le differenze nel comportamento”(p. 7).

Cosa centra la psicologia col comportamento? Molto, a dire il vero e questo perchè il comportamento è un certo tipo di azione, un’azione con caratteri peculiari che la contraddistinguono dalla caduta di un masso o dal movimento delle foglie, per esempio. Il comportamento è un agire che ha significato in una specifica situazione, è una “forma di manifestazione di un rapporto significativo fra un uomo o un animale e il mondo che lo circonda” (p. 17). Il comportamento ha a che fare con l’essere in situazione di un soggetto, cioè il suo essere calato in un contesto dinamico che ha per lui un certo significato, sulla base del quale modula le sue azioni.

Si capisce, dunque, perchè Buytendijk ritenga analisi fisiologica e anatomica insufficienti a spiegare il ‘perchè’ un organismo si comporti in un certo modo: studiando le cause fisiche e chimiche dei processi vitali e quelle strutturali del corpo vengono messe in luce solo le condizioni del comportamento, cioè il range di possibilità di movimento ed espressione proprie di ogni animale. Esse spiegano ciò che un animale può fare, non il perchè faccia ciò che fa. Una più completa analisi del comportamento non può prescindere da uno studio sui motivi di esso. Il motivo è un fattore che agisce qualitativamente e non quantitativamente nella determinazione del comportamento di un soggetto e, sebbene non se ne trovi una definizione esplicita nel testo, possiamo intenderlo come la risultante del rapporto tra l’animale, la situazione e il significato che essa riveste per il primo.

Chiariamo questo punto. Secondo Buytendijk il rapporto tra organismo e ambiente non è unidirezionale, ma vicendevole. L’ambiente è sorgente di stimoli che non agiscono semplicemente come cause meccaniche in grado di determinare automaticamente certe reazioni nell’animale. Gli stimoli hanno un aspetto qualitativo: il significato che viene loro attribuito dall’organismo che li percepisce.

Ogni soggetto, quindi, non è totalmente passivo di fronte all’ambiente, non è un contenitore vuoto che accoglie gli stimoli così come sono, ma, come già affermava Uexkull nei suoi testi, è attivo sia nel dare un significato agli stimoli percepiti, sia nella percezione stessa. Da una parte, infatti, gli organi sensoriali agiscono come a-priori esperienziali permettendo al soggetto l’accesso solo a determinati stimoli, dall’altra perchè lo stato interno del soggetto stesso determina il modo in cui tali stimoli vengono percepiti. In ogni istante della sua vita, ogni organismo si trova nell’ambiente in una certa ‘disposizione’, cioè con certi stati d’animo, desideri, necessità che determinano la maniera in cui il soggetto percepisce la situazione e il significato che le attribuisce. Personalmente trovo molto efficace per chiarire questo punto l’esempio fatto da Uexkull in “Ambienti animali e ambienti umani” circa il rapporto tra paguro e anemone: quanto incontra quest’ultima, il primo attua diversi comportamenti, dimostrando di proiettare diversi significati sull’anemone. Se è affamato, il paguro si avvicina per mangiarla: l’anemone, in questo caso è ‘cibo’; ma se si trova privo di una conchiglia protettiva e in situazione di pericolo, il paguro la utilizza come riparo nascondendosi al suo interno: l’anemone, ora, è ‘rifugio’.

Il rapporto soggetto-ambiente, dunque, non è unidirezionale, ma circolare, dove l’uno determina l’altro e viceversa, ed è “implicativo, cioè (…) corrisponde all’espressione ‘quando-allora’” (p. 51), poiché, date certe condizioni ambientali percepite in un certo modo e rivestite di un certo significato, l’animale attua un comportamento in risposta ad esse. Ecco allora che la motivazione è quel fattore qualitativo nella determinazione di un comportamento che sorge all’incrocio tra i due vettori di questo rapporto reciproco; essa è uno stimolo significativo, letto attraverso la lente della disposizione del soggetto, che spinge quest’ultimo a comportarsi in un determinato modo.

Questo nucleo teorico mi sembra interessante e attuale. Diversi filosofi si troverebbero d’accordo con questa lettura del comportamento e, personalmente, la ritengo incredibilmente trasformativa: è una lente concettuale che ci permettere di pensare in maniera differente noi esseri umani, gli altri animali e i rapporti che ci legano. Non macchine, non esseri passivi, ma ‘menti’ che interpretano il mondo e rispondono ad esso.

Altro spunto interessante è la convinzione di Buytendijk nel considerare come condizione preliminare per lo studio della psicologia comparata il riconoscimento di una continuità tra uomo e animale. Per questo motivo afferma che la psicologia comparata è legata all’antropologia: a seconda della concezione dell’uomo assunta cambia la possibilità e la metodologia con cui si effettua la comparazione. Se si concepisce l’umano come elevato, lontano e totalmente differente dagli altri animali, non c’è spazio per la comparazione.

Buytendijk opta per la continuità e quindi per la possibilità di una comparazione. Nel farlo, però, è importante non cadere nell’errore di utilizzare ciò che è umano come metro di misura per valutare le altre esistenze. Più volte l’autore mette in guardia circa la necessità di tener conto del fatto che quando si parla di comportamento, situazione o azione ‘significative’, questo ‘significative’ è da intendere come ciò che è tale per il soggetto che la osserva o compie, non per l’osservatore che la studia. Questo è estremamente importante e assolutamente in linea con le ricerche attuali in campo biosemiotico: se consideriamo ogni organismo un soggetto il cui comportamento è motivato da un certo significato che una situazione riveste ai suoi occhi, allora per comprendere le azioni altrui non dobbiamo rifarci al significato che la situazione assume per i nostri occhi umani, ma a quello assunto per l’occhio dell’animale coinvolto. Questo significa riportare l’uomo tra gli animali come uno di essi, come uno dei tanti sguardi sullo spettacolo del mondo. Ma significa anche ammettere la possibilità di non comprendere affatto un comportamento osservato. Non possiamo sapere tutto perchè non siamo osservatori puri o onniscenti, ma sempre calati in un certo modo di vedere, percepire, dare significato al mondo. L’agire altrui è un comportarsi ed esiste come tale anche quando non lo comprendiamo: è un agire significativo per altre menti, altri corpi e altre letture del mondo cui non possiamo accedere. Non dobbiamo farlo scadere a meccanismo pur di affermare di poterlo studiare e analizzare per comprenderlo a fondo ed esaurirlo. Lasciamo che l’ignoto continui a sorprenderci.

Lungo il testo, comunque, Buytendijk non rinuncia a sottolineare e ricercare ciò che contraddistingue l’uomo, ritrovandolo in diversi aspetti del comportamento che vanno dalla capacità astrattive, creativa e immaginativa al linguaggio articolato. Ci sarebbe molto da dire e puntualizzare: non sembra che questa analisi proceda verso una ricerca di elevazione dell’uomo (come abbiamo detto, opta per una continuità e quindi le differenze sono più gradi che salti qualitativi), ma molti aspetti del comportamento da lui definiti come ‘propri dell’uomo’ non mi soddisfano e oggi non li riterremmo più tali. Per un approfondimento vi invito a leggere il testo ma potrebbero essere temi ripresi nei prossimi articoli su questo blog.

Spunti estremamente interessanti si trovano nell’ultimo capitolo, dedicato all’analisi dell’intelligenza. Coerentemente con quanto sostenuto lungo il testo, Buytendijk afferma che “l’intelligenza del comportamento può essere giudicata solo dal punto di vista del soggetto, dalla sua esperienza, dai suoi impulsi e dal tipo di significato che alla situazione dà il soggetto stesso” (p. 137). Questo passaggio è estremamente fecondo. Innanzitutto perchè mette in dubbio la validità di tutta una serie di esperimenti sugli animali grazie ai cui risultati è stato possibile giudicare come privi di intelligenza gli animali non umani. La stessa situazione, si è detto, è percepita e interpretata in modi differenti da esseri viventi differenti. Sottoponendo un animale ad un test tarato sulle abilità percettive e cognitive umane per determinare se sia intelligente o meno stiamo in realtà sostenendo che l’unica forma di intelligenza possibile sia quella umana; stiamo dando per scontato che l’unico modo di leggere il mondo sia quello umano e stiamo disconoscendo il punto di vista dell’animale sulla situazione.

Con questi esperimenti stiamo sottoponendo all’animale le domande sbagliate, domande tarate sulle capacità e percezione umane, domande che, se incrociano i sensi dell’altro animale, non lo fanno allo stesso modo nostro e che, se rivestono ai suoi occhi un significato, è possibile ne rivestano tanti differenti quanti sono i sensi che li percepiscono. A parità di situazione e di problema da risolvere specie diverse possono comportarsi in maniera diversa, ma questo non significa che certi comportamenti sono più intelligenti di altri: sono modi diversi di rispondere ad una stessa situazione percepita in maniera diversa e dotata di significati differenti (p. 150). Dunque, non esiste una sola risposta ‘intelligente’ o ‘corretta’ ed è ingenuo giudicare come non intelligente un animale che semplicemente non si comporta come farebbe l’essere umano. Intelligenza non è sinonimo di intelligenza umana: ci sono tante intelligenze differenti che fanno riferimento alle possibilità fisiche, biologiche e cognitive di ogni animale (p. 146).

Per giudicare come intelligente un certo comportamento, dunque, dobbiamo prima conoscere a fondo l’animale e i suoi comportamenti ‘normali’. A partire da questo, Buytendijk definisce come intelligente un comportamento non dettato dall’abitudine, ma dall’esperienza sensibile (p. 138), “un comportamento organizzato” (p. 140) che ha senso nei confronti della situazione. Intelligente è un comportamento che tiene conto del contesto e si adatta ad esso, rispondendo in modo adeguato secondo la lettura, il significato che una situazione ha per ciascun soggetto.

Per quanto ormai datato questo testo è una miniera di spunti di riflessione da riprendere, contestualizzare e aggiornare con l’apporto delle scoperte più recenti. Credo che proprio per la sua capacità di veicolare un certo modo di pensare ad uomo e animale che oggi non è ancora stato metabolizzato dal pensiero comune si possa considerare ‘attuale’ e suggerire come una lettura ancora valida, ancora in grado di parlare.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Frederik Jacobus Johannes Buytendijk, Psicologia umana e psicologia animale, Garzanti, Milano, 1962.

Jakob von.Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani : una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata, 2019.

“Rights for Ghosts!”. Spettralità della cosa ed etica del consumo.

“Rights for Ghosts!”. Spettralità della cosa ed etica del consumo.

Le cose non sono mai semplicemente “cose”. Essendo situate nel tempo e nello spazio, non si riducono al confine fisico che le attornia. Il loro significato esonda da questi limiti e rimanda costantemente a linee alternative, perpendicolari, tangenti o addirittura parallele, che si dirigono verso panorami semantici ulteriori e ispessiscono la trama della mera cosa in sé. La cosa contiene le tracce di ciò che l’ha attraversata, di ciò che l’ha costruita e di ciò che tutt’ora la brama. La cosa è uno spazio d’incontro, un crocevia trafficatissimo dove fenomeni dapprima irrelati si uniscono in una intimità profonda per articolare il discorso, la narrazione e la storia della cosa stessa.

Le cose hanno storia e per questo non sono indifferenti. Sono comprese in reti relazionali vertiginose, in un rizoma intercontinentale dove nulla è mai realmente isolato. Le cose parlano, testimoniano, respirano l’aria di chi ha interagito con loro; sono incubatori di ricordi e bauli pieni di suggestioni. Sulle cose s’imprimono il passato e l’emotività degli attendenti, le loro attese, i loro progetti, in un linguaggio però ermetico, che non si esprime chiaramente ma sibilando, bisbigliando da un piano dislocato, presente attorno a noi e insieme irraggiungibile. In un certo senso, le cose sono possedute: sono cioè infestate da impressioni, immagini, veri e propri fantasmi che giungono con la nebbia, rendono invisibili le sponde e fanno della cosa un paradosso materiale, una specie di non-morto ontologico di cui non si può decidere la categoria di appartenenza.

Questi fantasmi provengono da tempi diversi dal presente in cui si interagisce con la cosa. Sono gli spettri del passato, carichi di nostalgia, che alludono a tutti gli incontri che la cosa ha avuto nel corso della sua esistenza; e quelli profetici del futuro, che già annunciano la fine che la cosa incontrerà e le conseguenze che innescherà la sua distruzione. I fantasmi viaggiano tra le dimensioni temporali e così il significato delle cose. Le loro stesse denominazioni, la funzione e il valore che vengono loro attribuiti non restano contenute nell’alveo del presente, ma straripano e scorrono in tutti gli altri piani temporali possibili. Il fantasma è, sinteticamente, un’esperienza totale della cosa; non il fruire di essa, ma l’ascoltare la sua voce, l’evocare la sua complessità sottesa, il lasciarsi ispirare dai racconti delle sue innumerevoli avventure.

Questa considerazione sulla natura della cosa – il suo essere infestata, il suo essere un morto inquieto – comporta un certo tipo di etica, di maniera di amministrare la cosa, che rifiuta, anzitutto, di ridurre la cosa a uno stadio di purezza. Quest’etica, anzi, si volta dall’altra parte e guarda il percorso in salita: non abbandona, puntando verso la valle, il vasto panorama che si intravede sulla cima, così rigoglioso di dettagli e di relazionalità, ma torna indietro verso di esso, agogna a raggiungerlo nuovamente, e questo ogni volta che le occorre usare una cosa. Che significa quindi “usare”? Il concetto qui s’impregna di un senso ulteriore di responsabilità: prima di usare una cosa, prima di stabilire per quale scopo debba essere impiegata, dovrò prima ascoltare la sua storia per decidere poi, assieme ad essa, se merita effettivamente di essere impiegata. Si tratta di un’etica del consumo della cosa: come posso consumare al meglio una cosa che non è semplicemente cosa? E a un livello metaforico: come posso mangiare qualcosa che parla?

La risposta può essere lunghissima come molto succinta. Diremmo che per ora sarebbe sufficiente mangiare senza ingozzarsi, nutrirsi con rispetto, pensando ai leoni nella savana che si accontentano di un solo esemplare di antilope, senza sterminarli indiscriminatamente. Il problema fondamentale è un altro: i fantasmi non emergono se non li interrogo. Se io uso una cosa semplicemente, se la sfrutto senza pormi il problema di ascoltare la sua storia, i fantasmi che la posseggono non si manifesteranno mai. La visione del rizoma mi rimarrà preclusa e continuerò a sfruttare le cose, diremmo ora il piano materiale, senza cognizione del male che le sto facendo. Non ascoltare una voce, ignorare cioè il racconto dell’altro, la complessità che lo caratterizza, equivale a un atto malvagio: sto impedendo l’epifania, sto ostacolando la verità, mi tappo le orecchie per continuare ad alimentare una relazione univoca con la cosa, di cui io-agente decido i contenuti.

Se l’apparizione dei fantasmi non viene da sé, significa che in certi casi essi rimangano inascoltati, costretti a una relazione univoca con il loro fruitore in cui essi non possiedono margine di iniziativa. Una situazione come questa si dà in molti contesti che per noi sono quotidiani: quando facciamo la spesa, quando acquistiamo l’ultima novità tecnologica o compriamo degli abiti nuovi. Nella maggior parte dei casi, i fantasmi che infestano le cose pertinenti a queste situazioni vengono ignorati per far scivolare con facilità la transazione. Se si interpellassero ogni volta i fantasmi delle cose, e questo dando anche adito a quel che ci dicono, per molti comprare qualcosa diverrebbe un problema spinoso, una questione morale di alto livello. Come poter comprare infatti qualcosa dopo aver sentito dai fantasmi che la infestano le storie orribili sui materiali che la compongono, sulle mani che l’hanno costruita e sulle logiche economiche che hanno sostenuto il suo viaggio?

Dovremmo estendere questa riflessione alla struttura stessa della civiltà. La civiltà umana deve interfacciarsi con la cosa e deciderne il destino: ricordo ad esempio la cerimonia del potlach, famoso esempio etnografico di gestione dell’eccedenza, o, come ho detto prima, di amministrazione della cosa. Ogni civiltà trova, conscia o meno, un canale preferenziale in cui incanalare le modalità di interazione con la cosa. La civiltà occidentale, in questo discorso, sembra aver arrogantemente accantonato l’importanza di questa relazione, per rovesciarla in un dominio assoluto dove l’individuo stabilisce in partenza che la cosa è solo una cosa, un contenitore vuoto e neutrale su cui indirizzare il proprio desiderio. Non è tanto da guardare al singolo consumatore, che acquista verdura importata e confezioni di plastica al supermercato (spesso è perché le alternative sono poche, costose e impegnative); il focus dev’esser spostato sull’intero apparato di amministrazione della cosa, sulla categoria principale che la società occidentale contemporanea ha imposto come fondamento di ogni altra operazione interna a questo settore. L’economia capitalista ignora il fantasma: lo nasconde e lo esorcizza per proseguire la sua impresa, per convincere la storia di non esser perseguitato, e così, tramite i fasti dell’innovazione e i colori della pubblicità, sotterra il non-morto perché le sue grida non si sentano e la cementificazione, la deforestazione e lo sfruttamento intensivo possano continuare.  

Il capitalismo ignora il fantasma e così svuota il mondo stesso della sua peculiarità: il fatto di esser infestato. Il mondo è tale proprio perché infestato e così ignorare l’infestazione, la pluralità di volti e voci che si agitano negli spazi aerei tra di noi, porta a dimenticarne la verità, il fatto che cioè niente è semplicemente quello che è. Il capitalismo ha distrutto il mistero della cosa: essa è chiaramente quello che è – merce, crudezza, cadavere semantico. Invece, l’etica che s’impernia sull’ascolto dei fantasmi, che è dunque ascolto della verità del mondo e della sua essenza, ritorna a quel mistero: torna a chiedersi chi ha fatto quella cosa, con quali materiali, dove, in quali condizioni, secondo quale progetto, e poi agisce nella prospettiva di portare un cambiamento in positivo. Così il capitalismo rinuncia a quest’etica per perpetrare la sua campagna di censura e generare le illusioni del benessere. È l’assenza di etica a generare queste illusioni: la sua presenza invece genera realtà per il semplice fatto che proprio la realtà è la condizione che esige.

In conclusione, voglio indicare una strada: l’etica che si premura di ascoltare i fantasmi è un’etica che apre i suoi confini perché va al di là della storia singola. È un’etica distruttiva perché sgretola la centralità storica in nome di tutte le altre storie, senza tuttavia escludere la sua di partenza. La pone anzi nel mezzo, per osservare le relazioni che essa mantiene con le altre. In questa prospettiva, è un’etica postumana: sostituisce il carattere tracotante, la hybris, del rapporto di dominio, con l’aidos, l’umiltà, nella consapevolezza che il centro, l’individuo e la cosa non sono più (mai stati) universi isolati e che invece figurano nella comunanza paritaria con ogni altra voce. Si scopre così un nuovo interesse “aperto alla con-divisione dello spazio-mondo e alla responsabilità orizzontale” (Revelli, 2020), un’etica che guarda al “post” del classico umanesimo, a un’epoca di storie concertate e fantasmi rispettati, poco turbolenti. Perché ora i fantasmi sono furiosi, latori di messaggi infausti dal futuro e testimoni di crudeltà che, sebbene presenti, rimangono sotterranee. Il passaggio alla cultura postumana è forse l’unica possibilità rimastaci per quietarli, che significa: trasferirsi in uno spazio dove i mondi sono plurali e ambigui e sconfinano innegabilmente, per premessa teoretica, gli uni negli altri, pur mantenendo l’umanità che ci contraddistingue, in tutte le sue innumerevoli ramificazioni.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

  • COVERLEY, M., 2020, Introduction, in Ghosts of Future Pasts, OldCastle Books, Harpenden.
  • FISHER, M., 2019, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma.
  • FISHER, M., 2013, The Metaphysics of Crackle: Afrofuturism and Hauntology, in Dancecult: Journal of Electronic Dance Music Culture, vol.5, n.2, pp.42-45.
  • FISHER, M., 2012, What is Hauntology?, in Film Quarterly, vol.66, n.1, University of California Press, Oakland, pp.16-24.
  • MORTON, T., 2017, Solidariety with Non-Human People, London, Verso Ed.
  • REVELLI, M., 2020, Umano Inumano Postumano, Milano, Einaudi