da Giulia Girodo | Set 4, 2024 | Ecologia, Filosofia, Uncategorized
Numero di luglio 2024 del National Geographic. L’articolo “L’alieno è tra noi” scritto da Francesco Martinelli è stato, per me, occasione di riflettere sulla cecità di molte decisioni umane quando si ha a che fare con i problemi di coesistenza con le altre specie animali.
L’articolo, in particolare, è dedicato al granchio blu, specie alinea originaria dell’Oceano Atlantico che a partire dal 2005 ha colonizzato il Mar Mediterraneo e ha trovato un habitat ideale precisamente nel Delta del Po.
Attualmente la specie è considerata ‘aliena’ (o alloctona, esotica, introdotta, non-nativa, non-indigena), termine con cui “si intende una specie trasportata dall’uomo, in maniera volontaria o accidentale, al di fuori della sua area di origine” (https://www.specieinvasive.isprambiente.it/specie-aliene-invasive/cosa-sono).
Non rientra, però, tra le specie aliene definite invasive, che l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) in accordo alle normative europee, definisce come “specie esotica la cui introduzione e diffusione causa impatti negativi alla biodiversità e ai servizi ecosistemici collegati (cioè i servizi che gli ecosistemi assicurano all’uomo come l’acqua e l’aria pulite, il legname o l’impollinazione). Anche se la definizione di specie esotica invasiva si riferisce solo ai danni ambientali, molte specie invasive causano impatti anche sulla salute umana e sull’economia.” (https://www.specieinvasive.isprambiente.it/specie-aliene-invasive/cosa-sono). A livello europeo esiste una legge (Regolamento UE 1143/14) che regola rigidamente i trattamenti riservati a queste specie, con norme relative alla prevenzione, gestione ed eradicazione. A livello nazionale la legge è stata applicata a partire dal 2018, grazie al Decreto Legislativo n.230 del 15 dicembre 2017.
Ciò che è interessante notare è che, secondo queste leggi, le specie aliene invasive non si possono cacciare, vendere e trasportare per ridurne ulteriormente la diffusione. A livello europeo viene costantemente aggiornata una lista di specie considerate aliene invasive “di rilevanza unionale” ossia “i cui effetti negativi sono considerati tali da richiedere un intervento concertato a livello di Unione” (Tricarico et al., p.44 ).
Il granchio blu non rientra ancora tra queste: nel 2023 è stato richiesto il suo inserimento nella lista, ma la procedura è piuttosto lunga, poiché richiede un certo numero di studi per valutare il suo impatto effettivo e se tale impatto sia rilevante su tutto il territorio unionale.
Ci sarebbero tante cose da discutere attorno al caso sollevato da questa specie in Italia, ma per il momento mi limito ad un solo tema: il ricorso alla pesca per arginarne l’espansione.
Sebbene il granchio blu non sia ancora considerato ufficialmente una specie aliena invasiva, di fatto sta dilagando a ritmi incalzanti nel Delta del Po e provocando seri danni. L’articolo di Martinelli si concentra sugli impatti economici di tale presenza massiccia: predando le vongole, danneggiando le reti e il pescato mette sotto scacco le imprese di pesca locali legate all’allevamento della vongola (filippina…). Ma il problema per me più rilevante è il danno alla biodiversità: il granchio blu sta raggiungendo densità di popolazione estremamente elevate, competendo e avendo la meglio sulle specie marine autoctone.
La strategia presa in seria considerazione nell’articolo, ma anche nell’opuscolo divulgativo prodotto da ilgiornaledeimarinai.it (che collabora con Ispra nella raccolta di segnalazioni del Granchio Blu, https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/notizie-e-novita-normative/notizie-ispra/2021/08/il-granchio-blu-alieno-callinectes-sapidus-in-espansione-nel-mediterraneo), e da alcuni già adottata è quella di vedere nel granchio una risorsa economica. Alcuni allevamenti di vongole si stanno riconvertendo in imprese di pesca al granchio blu; si sta cercando di creare una filiera solida e capillare per far arrivare il granchio ai supermercati; alcuni chef lo propongono nei menù sostenendo che sia “un grande punto di forza inserire nel menù specie aliene, per unire alta cucina e consapevolezza ambientale di ciò che si mangia”. (Martinelli, p. 15) “L’obiettivo è stimolare il consumo di granchio in tutti i modi possibili.” (Martinelli, p. 16)
A me questa strategia pare incredibilmente cieca, ma non sono la sola ad essere scettica. “Tra le tecniche gestionali da adottare, molti suggeriscono di promuovere l’uso alimentare di una specie aliena invasiva come metodo di controllo e fonte di reddito (http://eattheinvaders.org/). Tuttavia, questa pratica può rivelarsi in realtà controproducente: la specie aliena invasiva può entrare nella cultura popolare a tal punto che la cittadinanza non vuole più eliminarla, anzi ne può incentivare la presenza. È bene, quindi, stare attenti ad un utilizzo indiscriminato in questo senso per evitare di creare problemi maggiori” (Tricarico et al., p. 43).
La massiccia presenza del granchio blu è un problema, certo, e la sua popolazione va controllata se non si vuole rischiare la totale degradazione degli habitat e un appiattimento della biodiversità marina locale. Ora, però, ricorrere a imprese o realtà che hanno ritorni economici dal granchio mi sembra un ragionamento estremamente miope e assolutamente non lungimirante. Chiunque possa trarre da questa specie un guadagno, benchè possa essere mossa intimamente dalla volontà di fare un servizio alla natura eradicando la specie, finirà con il volerne la presenza in mare proprio perchè su di essa si basa il suo profitto. Una volta pescati tutti i granchi (diamolo per possibile) cosa pensate facciano questi pescatori? Si riconvertiranno alla vongola, nel frattempo sparita? O pensate che ci sia la possibilità che inizino ad allevare il granchio per potersi garantire una base economica costante?
Se il mondo economico fosse guidato dall’etica, forse e solo forse, potrei pensare che usare attività economiche che lucrano su un problema per eliminare il problema stesso sia un modo efficace. Ma se l’obiettivo è la riduzione e, idealmente, la scomparsa di una specie, come è possibile pensare di ricorrere a coloro che guadagnano sulla presenza del granchio?
Si potrebbe pensare che più ne mangiamo meglio è: così, di fatto, li togliamo dal mare! E così si apre la corsa ai piatti a base di granchio… e pensate che ad un certo punto il ristorate, e di conseguenza il suo fornitore e di conseguenza il pescatore, diranno ai clienti “ah non ce n’è più, li abbiamo mangiati tutti!”? O forse troveranno un modo per assicurare la soddisfazione del cliente? Quando la domanda aumenta, l’offerta le sta dietro.
Dovremmo impegnarci a pensare più sul lungo termine: le relazioni ecologiche vivono di rapporti sottili, necessari ma fragili, che hanno impiegato tempo a consolidarsi e che sono sempre in movimento, in continuo aggiustamento. Dovremmo allenarci a percepire le nostre azioni come inserite in questo flusso dinamico: forse, così, potremmo smetterla di pensare ad azioni puntuali e immediate per far fronte ad un problema senza considerarne gli effetti di lunga durata e ad ampio raggio.
BIBLIOGRAFIA E SITI DI RIFERIMENTO:
Martinelli Francesco, L’alieno è tra noi, in “National Geographic Italia”, luglio 2024, vol. 54, n°1, Milano, pp. 2-23.
Tricarico E, Lazzaro L, Giunti M, Bartolini F, Inghilesi AF, Brundu G, Cogoni A, Iiriti G, Loi MC, Marignani M, Caddeo A, Carnevali L, Genovesi P, Carotenuto L, Monaco A , Le specie aliene invasive: come gestirle. Guida tecnica per professionisti, 2019.
Guadagno Marcello, Granchio Blu, in “Il Giornale dei marinai”, agosto 2021.
https://www.specieinvasive.isprambiente.it/
https://www.lifeasap.eu/index.php/it/
https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/notizie-e-novita-normative/notizie-ispra/2021/08/il-granchio-blu-alieno-callinectes-sapidus-in-espansione-nel-mediterraneo
ENGLISH VERSION
All the quotes were in Italian and the traductions are mine.
In the volume of July 2024 of National Geographic Italia I read the article “L’alieno è tra noi” (“The alien is among us”) written by Francesco Martinelli. It gave me the opportunity to reflect on the blindness of some human decision when dealing with coexistance with other species. In particular, this article is dedicated to the Blue Crab, a species native of the Atlantic Ocean that since 2005 has colonized the Mediterranean Sea and found an ideal habitat in the Po Delta, in Italy.
At the moment in the UE this specie is considered “alien”, that is “a specie which has been transported by men, either intentionally or accidentally, outside its area of origin”.
However, it is not considered an invasive alien specie that ISPRA (the Italian Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) according to EU regulations defines as “exotic specie whose introduction and spread have negative impacts on biodiversity and related ecosystem services (i.e., the services that ecosystems provide to humans such as clean water and air, timber or pollination). Although the definition of invasive alien species refers only to environmental damage, many invasive species also have impacts on human health and the economy.” The European Union has a law, the Regulation 1143/14, that establishes rigid measure of treatment, prevention, control and eradication of invasive alien species. At the Italian national level this law has been applied since 2018, thanks to the “Decreto legislativo n° 230” 15 th december 2017.
Is interesting to note that, according to those laws, invasive alien species can’t be hunted, sold or transported in order to avoid further spread. At EU level there is a constantly updated list of species considered invasive alien “of Union concern”, that is “whose adverse effects are considered to require concerted action at Union level” (Tricarico et al., p.44 ).
The Blue Crab is not in this EU list: it was requested to be listed in 2023, but the procedure is quite lengthy as it requires a number of studies to assess its actual impact and whether this impact is relevant across the whole EU.
There will be many things to discuss around the “Blue Crab case in Italy”, but for now I limit this article to only one topic: the use of fishing to stem its expansion.
Even if the Blue Crab is not officially considered an invasive alien specie, it is a fact that it is spreading rapidly in the Po Delta and causing serious damages. Martinelli’s article is focused on the economic impact of this massive presence: preying on clams, damaging nets and catch, it puts the strain on local fishing enterprises linked to the breeding of the clam (Filipino clam…). But the most relevant problem for me is the damage to biodiversity: the Blue Crab is reaching extremely high population densities, competing and getting the better over native marine species.
The mentioned article (but also the informative brochure produced by the Italian newspaper il giornaledeimarinai.it, that collaborate with ISPRA in the collection of blue crab reports) take in serious consideration the strategy derived from seeing in the Blue Crab an economic resource. This strategy is not only been suggested, but also already put into practice: some clam farms are being converted into Blue Crab fishing companies; a solid and capillary chain to get the crab to supermarkets is going to be created; some chefs propose the Blue Crab in the menus claiming that it is “a great strength to insert in the menu alien species, to combine high cuisine and environmental awareness of what we eat”. (Martinelli, p. 15) “The aim is to stimulate crab consumption in all possible ways.” (Martinelli, p. 16).
To me this strategy seems incredibly blind, but I’m not the only one who is skeptical. “Among the management techniques to be adopted, many suggest promoting the food use of an invasive alien specie as a control method and a source of income (http://eattheinvaders.org/). However, this practice can be actually counterproductive: the invasive alien specie can enter popular culture to such an extent that the citizen does not want to eliminate it anymore, but rather can encourage its presence. It is therefore appropriate to be careful of indiscriminate use in this sense, so as not to create major problems” (Tricarico et al., p. 43).
The presence of the Blue Crab is a problem, of course, and its populations have to be controlled if we don’t want to risk the total habitat degradation and a flattening of local marine biodiversity. But making use of companies that have economic returns from the crab seems to me an extremely short-sighted reasoning. Anyone who can profit from this specie, although it may be moved intimately by the will to do a service to nature by eradicating it, will end up wanting its presence precisely because its profit are based on it. Once you have caught all the crabs (suppose it’s possible) what do you think these fishermen do? Will they re-convert to the clam, meanwhile disappeared? Or do you think there is a chance that they will start breeding crab in order to ensure a constant economic base?
If the economy was driven by ethics, perhaps and only perhaps, I might think that using economic activities that profit from a problem in order to eliminate the problem itself could be an effective way. But if the objective is to reduce and, ideally, eliminate a specie, how can we think of using those who make money from the crab?
One might think that the more we eat the crab, the better it is: by doing so, we actually get them out of the sea! And so the race opens to crab dishes… and do you think that at some point the restaurants, and therefore its supplier and consequently the fisherman, will say to customers “ah there is no more, we have eaten them all!”? Or will they find a way to ensure customer satisfaction? When demand increases, supply follows.
We should try to think more in the long term: ecological relationships live of thin, necessary and fragile relationships that have taken time to consolidate and are still in motion, in continuous adjustment. We should train ourselves to perceive our actions as inserted in this dynamic flow: perhaps, then, we could stop thinking of punctual and immediate actions to face a problem without considering its long-term and wide-ranging effects.
da Samuele Strati | Apr 1, 2023 | Antropologia, Etologia, Filosofia, Scienze, Umano
Ben poche volte si è mancato di far notare nelle scienze della vita e degli organismi come l’osservazione delle numerose forme viventi che popolano il pianeta, delle loro diversità e similitudini, consonanze e divergenze morfologiche, dei loro rapporti con gli ambienti in cui si trovano a vivere, e ancora maggiormente il loro studio, che consente l’accesso alle strutture fondamentali e minute dei corpi, mettano in luce un eccezionale grado di unità e di compatibilità. Infiniti sono gli esempi di organismi, o parti di questi, che appaiono perfettamente organizzati per la vita che conducono: le strutture alari degli uccelli e degli insetti, gli occhi adattati degli animali notturni, le qualità idrodinamiche di molte creature acquatiche; nel regno vegetale si riscontrano continuamente geometrie, rapporti matematici, equilibri, distribuzioni.
Simili osservazioni possono condurre all’impressione – ben lontana dall’essere stata ignorata storicamente – che vi sia in queste forme un carattere di completezza, diremo meglio, qualcosa di eminentemente concluso. Scegliamo di impiegare questo termine, in virtù della sua immediata capacità riassuntiva, per designare una forma – o un sistema – immutabile e fissa, perché progettata nel modo in cui si presenta all’osservatore o perché corrispondente ad un archetipo; in ogni caso, priva della possibilità plastica di modificare se stessa o la propria discendenza nel corso del tempo. Una forma, cioè, realizzata, e dunque conclusa, compiuta e perciò incapace di compiersi ulteriormente.
Questo modo di intendere la realtà vivente è proprio, ad esempio, anche se non esclusivamente, delle interpretazioni creazioniste, che noi raccogliamo in un senso ampio e generale, dal momento che esse comprendono in realtà una serie di posizioni variegate, alcune delle quali, soprattutto dopo la seconda metà del diciannovesimo secolo e per tutto il ventesimo, ammettono l’evoluzione delle specie (es. Teilhard de Chardin. In generale, sui rapporti tra evoluzionismo e teologia cattolica cfr. Molari 1984; sulla disputa tra evoluzionismo e creazionismo nell’età di Darwin cfr. Casini 2009), e alcune che, in secoli più remoti, non furono comunque insensibili a problemi di difficile soluzione teologica, come la presenza negli strati fossili di resti di creature decisamente distanti da quelle attuali (una su tutte, la teoria delle catastrofi sostenuta da Cuvier nel Discours sur les révolutions de la surface du globe del 1812, per cui il pianeta avrebbe subìto una serie di sconvolgimenti geologici al termine dei quali la vita sarebbe stata, di volta in volta, creata nuovamente). Noi ci limitiamo ad intendere il creazionismo entro una formula generica e accostabile a quella presentata da Paley nella Natural Theology (1802), in cui le specie appaiono immutabili e statiche, “concluse” perché create ab initio da una volontà che pensa e dice(1) la propria Creazione e la dispone provvidenzialmente, in ogni sua parte, alla vita materiale.
L’evoluzionismo introduce, al contrario, il principio del trasformismo delle specie. La teoria classica, darwiniana, prevede che la discendenza degli organismi si modifichi in risposta a certe pressioni ambientali. Il rapporto tra l’organismo e l’ambiente in cui questo si trova produce un esito selettivo che nel corso del tempo e delle generazioni conduce alla trasformazione degli organismi stessi nelle loro qualità genetiche, morfologiche ed etologiche. In questo processo, ininterrotto e privo di direzionalità, giacché dipendente da una serie aleatoria di eventi, nessuna forma è mai dunque definitivamente conclusa, ovvero fissata nel tempo – nel senso creazionistico che abbiamo visto. La relazione tra organismo e ambiente è di natura evidentemente circostanziale, e una volta stabilita una simile interpretazione dei fatti relativi alla discendenza le difficoltà teoretiche che si incontrano nel tentativo di risalire ad una sorta di disegno originario sono notevoli. Se si considerano la natura e il sistema dei viventi come privi di progetto, a risentirne è il concetto stesso di conclusione, il quale è tolto dall’inizio. In Darwin il principio della selezione naturale sostituisce l’argomento teologico-finalistico: «Oggi, dopo la scoperta della legge della selezione naturale, cade il vecchio argomento di un disegno nella natura secondo quanto scriveva Paley […]. Non si può più sostenere, per esempio, che la cerniera perfetta di una conchiglia bivalve debba essere stata ideata da un essere intelligente, come la cerniera della porta dall’uomo» (Darwin 2016, 69). Così, l’interpretazione fissista, che pensa l’immutabilità delle specie nel tempo, viene corretta da una visione genealogica del mondo vivente. In questa, la vita e i suoi accadimenti si presentano alla maniera di un processo.
Tale scoperta, che storicamente si traduce in una presa di coscienza circa il fatto che il sistema degli organismi possiede una propria logica e un proprio funzionamento intrinseco (e che non si limita, dunque, a rispecchiare una disposizione dettata dall’esterno), ha dovuto imporre una prospettiva e nuove direzioni di ricerca ad una serie di problemi su cui tanto la filosofia, quanto le scienze naturali si sono a lungo soffermate, e che anche precedentemente non erano stati ignorati: tra i molti, il problema del determinismo e della libertà dell’agire, della percezione e dell’esperienza, dell’origine delle facoltà cognitive e del senso estetico, e non da ultimi i dilemmi teologici relativi al senso della vita nel suo complesso, e tra questi, ancora, quelli legati alla vita precedente alla comparsa della nostra specie. Nel caso specifico dell’essere umano si trovano interrogate direttamente tutte le questioni che ricadono sotto il dominio dell’antropologia filosofica, a partire da come debba essere inteso il fatto puro della presenza umana nell’ordine delle cose naturali. Quando si voglia compiere sull’uomo un discorso sistematico, comprensivo di tutto quanto è necessario dire affinché se ne possa ottenere una conoscenza completa al massimo delle possibilità, come se visivamente lo si inquadrasse in un campo largo, e specialmente laddove si voglia discutere la questione vitale della sua posizione nel mondo e nel cosmo, il riconoscimento di questa dimensione evolutiva non può essere eluso.
(1) Ci riferiamo all’espressione «Dio disse:» contenuta nella Genesi (Gn 1, 1-30), in cui l’atto creativo è sempre preceduto dalla sua affermazione.
Riferimenti:
P. Casini, Darwin e la disputa sulla creazione, Il Mulino, Bologna 2009.
C. Darwin, Autobiografia (1809-1882), Einaudi, Torino 2016.
C. Molari, Darwinismo e teologia cattolica. Un secolo di conflitti, Borla, Roma 1984.
da Eleonora Adorni | Dic 2, 2016 | Scienze, Sezioni
Il modello cartesiano di animale macchina sta finalmente tramontando in modo definitivo e con esso la pretesa di trasformare gli animali in oggetti dotati di automatismi, ma privi di un mondo interno e di una loro soggettività.
Già nel 1872 Charles Darwin nel saggio “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” aveva sottolineato come l’approccio continuista, quello cioè che non pone differenze qualitative fra noi e le altre specie ma solo di grado, fosse da preferirsi nell’interpretazione del comportamento animale a quello meccanicistico introdotto dal filosofo Cartesio.
Secondo l’opinione del naturalista inglese, l’uomo e gli altri animali condividono molte caratteristiche biologiche e tali sono le somiglianze per cui diviene più plausibile l’esplicazione antropomorfa, vale a dire spiegare il comportamento delle altre specie sulla base dell’immedesimazione, rispetto a quella macchinomorfa. Tale dettato fu assunto in modo radicale e acritico da alcuni dei primi continuatori del pensiero darwiniano, in particolare da George Romanes che nel saggio “Animal Intelligence” del 1888 portava il continuismo al paradosso, assegnando un comportamento razionale persino alle ostriche.
Questo approccio inevitabilmente si esponeva alle critiche dei fautori di una separazione netta tra l’uomo e le altre specie, proprio per l’inconsistenza e l’arbitrarietà delle attribuzioni, cosicché nel 1898 lo studioso C. Lloyd Morgan introdurrà il cosiddetto “canone di parsimonia” secondo cui non è corretto interpretare un comportamento come il risultato dell’esercizio di una facoltà mentale superiore se può essere spiegato facendo riferimento a una inferiore.
Si tratta di uno spartiacque importante che, seppur non nelle intenzioni di Lloyd Morgan di negare una mente animale, caratterizzerà il Novecento nella direzione di una ripresa del modello cartesiano di animale automa. Le due più importanti scuole di interpretazione del comportamento animale che prenderanno avvio nei primi decenni XX secolo, quella etologica centroeuropea e quella behaviorista americana, saranno pertanto orientate a preferire le spiegazioni meccanicistiche rispetto a quelle mentalistiche. L’animale macchina è di fatto un burattino mosso da dei fili che in modo separato producono il comportamento: per i behavioristi i fili sono messi dall’apprendimento durante la vita dell’individuo e prendono il nome di condizionamenti, per l’etologia classica i fili sono configurati dalla selezione naturale durante la storia della specie e prendono il nome di istinti.
Se per i primi il burattinaio è l’ambiente, che attraverso gli stimoli va a suscitare i riflessi, per i secondi sono le pulsioni che come un’energia cercano soddisfazione su un target cosicché il comportamento è a tutti gli effetti una consumazione. Condizionamenti e istinti sono degli imperativi sull’animale esattamente come degli interruttori che accendono selettivamente alcune particolari espressioni cosicché l’individuo manca di soggettività, è un oggetto mosso da degli automatismi. Il tabù della mente animale viene infranto negli anni ’60 da alcuni etologi, in primo luogo da Donald Griffin che, riprendendo i lavori pionieristici di psicologi quali Wolfgang Köhler ed Edward Tolman, riprese il filo continuista di Darwin per indagare la soggettività animale nei tratti inspiegabili secondo il modello meccanicista quali la creatività, la pianificazione, la coscienza e la cultura.
In questi anni infatti la ricerca sul campo e quella su setting opportunamente predisposte aveva portato in evidenza un gran numero di testimonianze circa la complessità del comportamento animale; addirittura nel 1969 lo psicologo Gordon Gallup era riuscito con la famosa prova dello specchio a dimostrare una certa forma di autocoscienza nello scimpanzé. Nasceva così l’etologia cognitiva, una nuova scuola di pensiero che, pur mantenendo le importanti intuizioni della tradizione, soprattutto del pensiero di Konrad Lorenz, affrontava il comportamento animale in chiave mentalistica. Ma cosa significa in pratica ammettere una mente animale e quali sono i modelli di spiegazione chiamati a sostituire i fili del burattino?
Prima di tutto considerare l’animale come un’entità dotata di mente significa assegnargli un mondo interiore capace di riflettere sui problemi, porsi degli obiettivi, farsi un piano d’azione, scegliere tra le possibili opzioni, prefigurare degli eventi non presenti, operare delle simulazioni, ricordare attraverso delle immagini mentali… insomma possedere una sorta di teatro elaborativo interno. Parole come giudicare, valutare, decidere, progettare, capire, inferire, risolvere non avrebbero alcun senso al di fuori di una impostazione mentalistica perché verrebbe a mancare il supporto stesso necessario per questi processi. Nella visione mentalistica le diverse dotazioni cognitive, siano innate o apprese, non sono degli interruttori che meccanicamente richiamano un comportamento ma sono delle risorse che la soggettività utilizza in tutte le attività di interfaccia con il mondo, cosicché l’individuo non risulta esposto agli stimoli esterni bensì è riconosciuto come esperienziale, vale a dire capace di porre domande al mondo sulla base delle proprie dotazioni di conoscenza.
Al posto del modello associativo, proprio delle tradizioni non mentalistiche, l’impostazione cognitiva utilizza il concetto di rappresentazione, come schema elaborativo che il soggetto utilizza per risolvere i problemi di interazione con la realtà esterna. La rappresentazione è una sorta di mappa che consente al soggetto di realizzare le diverse prestazioni cognitive, quasi fossero dei singoli itinerari cosicché, a differenza del modello associativo, imperativo sulla funzione, le rappresentazioni implicano più modalità di utilizzo: è il soggetto che possiede le rappresentazioni.
Una questione importante nella ricerca dell’etologia cognitiva riguarda il problema della consapevolezza divisa in genere nelle seguenti aree:
- senzienza o consapevolezza del corpo e quindi del dolore, della sensorialità e degli stati emozionali;
- intenzionalità o consapevolezza dei propri pensieri o stati mentali nei diversi livelli di complessità;
- autocoscienza o consapevolezza di sé come entità biografica, come unità di esistenza, come caratteristiche di riconoscibilità;
- teoria della mente o consapevolezza degli stati mentali altrui. Secondo l’approccio cognitivo la gran parte dei processi elaborativi può essere realizzata in modo inconscio, senza che per questo venga meno lo statuto di soggettività;
Ma d’altro canto, lungi dall’essere una funzione in qualche modo pleonastica, la coscienza si rivela come una qualità importante nell’adattamento dell’animale e nell’assicurare al soggetto un comportamento flessibile. Oggi sono sempre di meno gli etologi che negano le facoltà mentali alle specie non umane e questo ha avuto indubbie ricadute sia nel modo di sviluppare la ricerca sul comportamento ma altresì sul modo di considerare sotto il profilo etico il nostro modo di rapportarci agli animali.
Le intelligenze multiple di Howard Gardner
Esistono peraltro differenze tra gli etologi cognitivi nel modo di approcciare il tema della mente animale e in particolare possiamo ravvisare due impostazioni, diverse ma in qualche modo complementari tra loro: il cosiddetto “antropomorfismo critico” che parte da una comparazione stretta con l’uomo per assegnare agli animali facoltà mentali simili e, al contrario, la “pluralità cognitiva” che si basa sul riconoscimento della diversità delle intelligenze animali, perché differenti sono stati i problemi adattativi che le diverse specie hanno dovuto affrontare nel corso dell’evoluzione.
Come Howard Gardner con la teoria dell’intelligenze multiple ha in buona sostanza sancito l’incomparabilità tra le diverse facoltà intellettive, mandando in soffitta il vecchio concetto di quoziente intellettivo, allo stesso modo non ha senso paragonare la cognitività delle diverse specie perché chiamata a produrre prestazioni correlate a sfide adattative particolari.
L’intelligenza del gatto, tutta tesa a risolvere problemi e perciò di tipo enigmistico, è completamente diversa da quella del cane che è di tipo sociale, vale a dire modellata sulla capacità di muoversi correttamente nelle relazioni e nelle sistemiche di gruppo. Di certo il tema della mente animale rappresenta un capitolo di ricerca ancora inesplorato per buona parte e per questo molto va ancora scritto e di certo le sorprese non mancheranno.
Roberto Marchesini
da Eleonora Adorni | Dic 2, 2016 | Scienze, Sezioni
La domesticazione rappresenta uno dei fondamenti della storia dell’umanità, un cammino troppo spesso rappresentato come evento mitico realizzato in modo autarchico, nell’iconografia autocelebrativa di un uomo che si è fatto da sé – un’immagine oggi molto in uso – lottando contro una natura ostile.
In realtà questa lettura è scorretta, soprattutto se consideriamo che, dalle ultime ricerche paleontologiche e di biologia molecolare, si è dovuto retrodatare la domesticazione del cane oltre il fatidico limite dei 50.000 anni fa. Nelle brume del Paleolitico, l’uomo, ancora raccoglitore nomade, era già accompagnato dal cane nelle sue migrazioni, e questo ben 40.000 anni prima della rivoluzione del Neolitico: un dato che ci fa comprendere come si debba parlare di un processo reciproco che ha trasformato la nostra specie, oltre ad aver estratto il cane dal complesso genotipo del lupo. Ovviamente, considerando l’epoca in cui è avvenuto questo processo, è da escludere un vero e proprio progetto di controllo ed è verosimile che più che di un evento di cattività debba trattarsi di un processo di avvicinamento.
Ominidi e lupi condividevano lo stesso ambiente, avevano la stessa collocazione ecologica, assomigliavano nell’organizzazione sociale: tutti questi requisiti inevitabilmente hanno facilitato gli incontri e le sovrapposizioni, indubbiamente anche situazioni di scontro, ma alla fine dobbiamo pensare che prima della domesticazione ci sia stata una lunga convivenza. Una frequentazione che, se da una parte ha avvicinato il lupo alla consuetudine umana, creando le premesse per la domesticazione, come giustamente riscontrato da Raymond Coppinger, dall’altra ha modificato profondamente gli usi e i costumi dei nostri progenitori.
Questo è forse l’aspetto più interessante messo in luce dalla zooantropologia, disciplina che studia i prestiti degli etrospecifici nella costruzione della dimensione antropologica. L’identità umana non è un’entità autarchica e non è possibile pensare ai predicati che la caratterizzano – la musica, la danza, la moda, la tecnologia – come qualità autofondate.
Già Democrito aveva sottolineato che l’uomo aveva imparato gran parte delle sue arti osservando gli animali e imitandone le prestazioni. Tra l’altro tutte le mitologie parlano di uomini adottati da lupe, da cui possiamo ricavare che anche la licantropia – ovvero il meticciamento con il lupo – abbia svolto un ruolo antropologico non secondario in questa apertura dell’orizzonte umano. Di certo l’adozione di un cucciolo di lupo, un evento verificatosi più volte e in aree geografiche differenti, come già aveva intuito Konrad Lorenz, ha significato indubbiamente un salto di qualità.
Con l’ingresso fattivo del lupo nel gruppo umano i bambini imparano stili comportamentali non umani dando vita a un’ibridazione molto più profonda e articolata. La domanda che ci potremmo porre riguarda il perché sia avvenuta questa adozione. Studiando le prassi di allevamento ancora in voga presso alcune culture, come quella Papua o Nunga, osserviamo ancora pratiche come il maternaggio, l’allattamento al seno di cuccioli, o lo svezzamento attraverso il passaggio di cibo da bocca a bocca, il che ci porta a leggere l’adozione come evento legato alle cure parentali.
Nel famoso saggio In the company of animals, lo studioso James Serpell fa notare come in tutte le popolazioni umane siano presenti animali cosiddetti da compagnia e come il tratto che caratterizza questi rapporti sia proprio la tendenza ad accudire e a prendersi cura dei pet, al punto tale che l’etologo statunitense arriva a ipotizzare una sorta di parassitismo parentela. Gli animali domestici avrebbero pertanto utilizzato la stessa strategia del cuculo? Il paragone non sembra reggere perché mentre il cuculo ha affinato una sua strategia riproduttiva, specifica sotto il profilo dell’adattamento, nel caso degli animali adottati l’uomo sembra aver tentato di domesticare qualunque tipo di animale. Così, se è vero che non tutti gli animali sono stati domesticati – come la gazzella o il ghepardo -, il limite va ascritto, come giustamente rilevato dal fisiologo Jared Diamond, ad alcuni caratteri non direttamente legati con l’adozione, come la docilità o la riproduzione controllata.
Non vi è dubbio che, se un primo movens dev’essere individuato, questo vada ricercato non negli addomesticandi ma nell’addomesticatore, ovvero nelle caratteristiche etografiche della nostra specie. Già Konrad Lorenz aveva richiamato l’attenzione verso una serie di caratteri pedomorfici – tipici delle forme giovanili – comuni in tutti i mammiferi, come la forma sferica della testa, gli occhi molto grandi e lucidi, il muso schiacciato, le zampette corte, tanto da risultare una forma di linguaggio universale dei cuccioli. Le forme giovanili sanno suscitare comportamenti parentali, sono una sorta di esperanto “et-epimeletico” – termine etologico che in pratica significa “capace di muovere un comportamento di cura”.
Ma è altrettanto vero che tale evocazione sarà più forte se dall’altra parte c’è qualcuno fortemente sensibile a tale richiamo, ossia con una forte motivazione epimeletica – dal greco epimeléomai che significa “prendersi cura”. In tal senso si deve concordare con Martin Heidegger quando afferma che “l’uomo è figlio della cura”; l’etologia sembra dargli ragione sottolineando la forte sensibilità dell’uomo verso il richiamo et-epimeletico. La forma giovanile ha un indubbio appeal nell’essere umano al punto tale che persino i disegnatori disneyani si trovarono a dover ritoccare in senso pedomorfico Micky Mouse e Donald Duck per aumentarne il fascino.
Anche le macchine dai contorni rotondeggianti, come la Cinquecento e il maggiolone, hanno dimostrato di esercitare un appeal superiore. La tendenza epimeletica dell’essere umano andrebbe ascritta al forte bisogno di cure parentali del cucciolo di Homo sapiens che, a differenza dei cugini scimpanzé, bonobo, gorilla e orango, alla nascita presenta un’accesa immaturità di sviluppo – ossa craniche non saldate, volume encefalico di un quinto rispetto all’adulto – che lo rende assai inetto e quindi bisognoso di cure parentali.
Il neonato umano non solo non è in grado di aggrapparsi come il cucciolo delle altre antropomorfe ma non è capace nemmeno di tenere su la testa. Secondo il dettato darwiniano la conclusione è presto detta: senza una controlaterale vocazione epimeletica la nostra specie si sarebbe estinta. Già, ma come l’acceso predatorio di un gatto gli rende irresistibili palline e freccette del mouse, così la forte motivazione epimeletica ci rende vulnerabili verso le forme giovanili, anche quelle di altre specie. Insomma di fronte a un cucciolo siamo presi dalla tenerezza, ossia dalla voglia di adottarlo, accudirlo e dargli da mangiare, al punto tale che anche i bambini, davanti a un animale, la prima cosa che fanno è porgergli del cibo.
È verosimile che sia stata proprio la tenerezza il grande interprete della domesticazione e non un calcolo di utilizzo, come lasciato trapelare in filigrana dall’approccio zootecnico. Del resto è molto difficile spiegare maternaggio e svezzamento buccale al di fuori di un comportamento parentale. Si tratta di ribaltare un luogo comune che vede il maschio umano cacciatore indomito protagonista della cattura e dell’asservimento degli animali.
In realtà furono le donne a dar avvio alla domesticazione, aprendo la strada a un processo di ibridazione con il non umano che ci ha trasformato alla radice, fino ad arrivare al cyborg postmoderno raffigurato da Donna Haraway come condizione esistenziale della contemporaneità. La domesticazione sarebbe stata perciò un effetto collaterale del nostro virtuosismo nell’ambito della cura, una tendenza che di fatto ci ha aperto alla contaminazione del non umano. Se l’antropologo Lévi-Strauss ebbe a sostenere che l’animale è prima di tutto “buono da pensare”, altri studiosi come Marvin Harris e il già citato Jared Diamond sono arrivati a riscrivere la storia dell’umanità attraverso le diverse partnership con gli animali domestici dove la domesticazione del bovino ha reso possibile lo sviluppo della meccanica e la domesticazione del cavallo è stata la prima forma di globalizzazione.
La cultura rurale, pur nelle diverse trasformazioni che l’hanno caratterizzata, vedeva una profonda promiscuità tra l’uomo e le altre specie, al punto tale che molti fisiologi hanno riscontrato l’importanza della cosiddetta immunità incrociata, vera e propria vaccinazione ante litteram che ha permesso all’uomo di mettersi al riparo da particolari malattie infettive. Infatti alcuni virus che colpiscono gli animali, come quello della peste bovina, non danno una patologia nell’uomo ma provocano in lui una risposta immunitaria capace di far fronte ad altri virus che colpiscono l’essere umano.
Con la rivoluzione urbana del Novecento l’uomo ha divorziato dagli animali domestici, molti dei quali sono finiti negli allevamenti intensivi, veri e propri lager che hanno tolto loro la luce del sole, l’aria aperta, la possibilità di movimento e per converso hanno costellato la loro esistenza di terribili vessazioni. Ad accompagnarci nelle metropoli convulse sono rimasti solo il cane e il gatto, privilegiati solo in apparenza, perché di fatto relegati ad una vita che ha ben poco delle soddisfazioni richieste dal loro etogramma. Un luogo comune vuole che l’antropomorfizzazione dei pet vada considerata una grossa elargizione per loro e si usano termini come viziare o coccolare, quando al contrario il più delle volte si tratta di veri e propri maltrattamenti.
Del resto secondo la tradizione disneyana, che bene o male ha formato tutte le generazioni a partire dagli anni ’50, gli animali sono solo delle maschere sotto cui agisce una personalità umana. Questo non ci permette di capire che in fatto di percezione del mondo, di modalità comunicativa, di interesse e di rituali comportamentali ogni specie ha i suoi tratti distintivi e merita di essere rispettata come tale. E tuttavia è vero che gli animali domestici rappresentano l’ultimo contatto con una realtà non umana che abbiamo rifiutato e allontanato ma di cui abbiamo bisogno per costruire le qualità più autentiche della nostra dimensione umana.
Per conoscere meglio le specie che hanno accompagnato l’umanità nel suo accidentato percorso storico, si può leggere ad esempio il saggio di Renato Massa Gli animali domestici, edito da Jaca Book. Come sottolinea l’autore, conosciuto al pubblico italiano per i numerosi articoli e saggi sul rapporto tra l’uomo e la natura, “gli animali domestici sono spesso, se non le uniche, le principali forme di vita senziente che incontriamo con facilità intorno a noi”.
Se questo è vero, non è così scontato che li sappiamo realmente individuare. Apprendere le caratteristiche degli animali domestici, saperli riconoscere, in un contesto culturale fortemente influenzato dai media, ove è più facile conoscere la fauna della savana africana piuttosto che distinguere una capra da una pecora o un asino da un pony, ove per i bambini i Pokemon e i Gormiti sono diventati i nuovi animali, non è di secondaria importanza. Troppo spesso assistiamo alla corsa per il possesso di animali esotici e selvatici, dai pitoni alle iguane, ignari del fatto che mentre per un animale domestico la relazione con l’uomo è nelle sue corde per un animale selvatico si tratta sempre di cattività.
Saperne di più sui tratti che distinguono un animale domestico da quelli di uno selvatico, attraverso le righe del saggio del professor Massa, è indubbiamente un’urgenza del nostro tempo. Anche perché se l’etologia ci parla di animali non più come di automata di cartesiana memoria ma come di esseri senzienti, ovvero dotati di una mente e di un pensiero è conseguente un profondo slittamento etico circa il modo con cui l’essere umano si rapporta a loro. Se l’animale domestico ha diritto alla cura responsabile dell’essere umano, l’animale selvatico ci chiede di lasciarlo vivere nel suo ambiente.
Roberto Marchesini