Abbiamo preso un granchio? ENG below

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Numero di luglio 2024 del National Geographic. L’articolo “L’alieno è tra noi” scritto da Francesco Martinelli è stato, per me, occasione di riflettere sulla cecità di molte decisioni umane quando si ha a che fare con i problemi di coesistenza con le altre specie animali.

L’articolo, in particolare, è dedicato al granchio blu, specie alinea originaria dell’Oceano Atlantico che a partire dal 2005 ha colonizzato il Mar Mediterraneo e ha trovato un habitat ideale precisamente nel Delta del Po.

Attualmente la specie è considerata ‘aliena’ (o alloctona, esotica, introdotta, non-nativa, non-indigena), termine con cui “si intende una specie trasportata dall’uomo, in maniera volontaria o accidentale, al di fuori della sua area di origine” (https://www.specieinvasive.isprambiente.it/specie-aliene-invasive/cosa-sono).

Non rientra, però, tra le specie aliene definite invasive, che l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) in accordo alle normative europee, definisce come “specie esotica la cui introduzione e diffusione causa impatti negativi alla biodiversità e ai servizi ecosistemici collegati (cioè i servizi che gli ecosistemi assicurano all’uomo come l’acqua e l’aria pulite, il legname o l’impollinazione). Anche se la definizione di specie esotica invasiva si riferisce solo ai danni ambientali, molte specie invasive causano impatti anche sulla salute umana e sull’economia.” (https://www.specieinvasive.isprambiente.it/specie-aliene-invasive/cosa-sono). A livello europeo esiste una legge (Regolamento UE 1143/14) che regola rigidamente i trattamenti riservati a queste specie, con norme relative alla prevenzione, gestione ed eradicazione. A livello nazionale la legge è stata applicata a partire dal 2018, grazie al Decreto Legislativo n.230 del 15 dicembre 2017.

Ciò che è interessante notare è che, secondo queste leggi, le specie aliene invasive non si possono cacciare, vendere e trasportare per ridurne ulteriormente la diffusione. A livello europeo viene costantemente aggiornata una lista di specie considerate aliene invasive “di rilevanza unionale” ossia “i cui effetti negativi sono considerati tali da richiedere un intervento concertato a livello di Unione” (Tricarico et al., p.44 ).

Il granchio blu non rientra ancora tra queste: nel 2023 è stato richiesto il suo inserimento nella lista, ma la procedura è piuttosto lunga, poiché richiede un certo numero di studi per valutare il suo impatto effettivo e se tale impatto sia rilevante su tutto il territorio unionale.

Ci sarebbero tante cose da discutere attorno al caso sollevato da questa specie in Italia, ma per il momento mi limito ad un solo tema: il ricorso alla pesca per arginarne l’espansione.

Sebbene il granchio blu non sia ancora considerato ufficialmente una specie aliena invasiva, di fatto sta dilagando a ritmi incalzanti nel Delta del Po e provocando seri danni. L’articolo di Martinelli si concentra sugli impatti economici di tale presenza massiccia: predando le vongole, danneggiando le reti e il pescato mette sotto scacco le imprese di pesca locali legate all’allevamento della vongola (filippina…). Ma il problema per me più rilevante è il danno alla biodiversità: il granchio blu sta raggiungendo densità di popolazione estremamente elevate, competendo e avendo la meglio sulle specie marine autoctone.

La strategia presa in seria considerazione nell’articolo, ma anche nell’opuscolo divulgativo prodotto da ilgiornaledeimarinai.it (che collabora con Ispra nella raccolta di segnalazioni del Granchio Blu, https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/notizie-e-novita-normative/notizie-ispra/2021/08/il-granchio-blu-alieno-callinectes-sapidus-in-espansione-nel-mediterraneo), e da alcuni già adottata è quella di vedere nel granchio una risorsa economica. Alcuni allevamenti di vongole si stanno riconvertendo in imprese di pesca al granchio blu; si sta cercando di creare una filiera solida e capillare per far arrivare il granchio ai supermercati; alcuni chef lo propongono nei menù sostenendo che sia “un grande punto di forza inserire nel menù specie aliene, per unire alta cucina e consapevolezza ambientale di ciò che si mangia”. (Martinelli, p. 15) “L’obiettivo è stimolare il consumo di granchio in tutti i modi possibili.” (Martinelli, p. 16)

A me questa strategia pare incredibilmente cieca, ma non sono la sola ad essere scettica. “Tra le tecniche gestionali da adottare, molti suggeriscono di promuovere l’uso alimentare di una specie aliena invasiva come metodo di controllo e fonte di reddito (http://eattheinvaders.org/). Tuttavia, questa pratica può rivelarsi in realtà controproducente: la specie aliena invasiva può entrare nella cultura popolare a tal punto che la cittadinanza non vuole più eliminarla, anzi ne può incentivare la presenza. È bene, quindi, stare attenti ad un utilizzo indiscriminato in questo senso per evitare di creare problemi maggiori” (Tricarico et al., p. 43).

La massiccia presenza del granchio blu è un problema, certo, e la sua popolazione va controllata se non si vuole rischiare la totale degradazione degli habitat e un appiattimento della biodiversità marina locale. Ora, però, ricorrere a imprese o realtà che hanno ritorni economici dal granchio mi sembra un ragionamento estremamente miope e assolutamente non lungimirante. Chiunque possa trarre da questa specie un guadagno, benchè possa essere mossa intimamente dalla volontà di fare un servizio alla natura eradicando la specie, finirà con il volerne la presenza in mare proprio perchè su di essa si basa il suo profitto. Una volta pescati tutti i granchi (diamolo per possibile) cosa pensate facciano questi pescatori? Si riconvertiranno alla vongola, nel frattempo sparita? O pensate che ci sia la possibilità che inizino ad allevare il granchio per potersi garantire una base economica costante?

Se il mondo economico fosse guidato dall’etica, forse e solo forse, potrei pensare che usare attività economiche che lucrano su un problema per eliminare il problema stesso sia un modo efficace. Ma se l’obiettivo è la riduzione e, idealmente, la scomparsa di una specie, come è possibile pensare di ricorrere a coloro che guadagnano sulla presenza del granchio?

Si potrebbe pensare che più ne mangiamo meglio è: così, di fatto, li togliamo dal mare! E così si apre la corsa ai piatti a base di granchio… e pensate che ad un certo punto il ristorate, e di conseguenza il suo fornitore e di conseguenza il pescatore, diranno ai clienti “ah non ce n’è più, li abbiamo mangiati tutti!”? O forse troveranno un modo per assicurare la soddisfazione del cliente? Quando la domanda aumenta, l’offerta le sta dietro.

Dovremmo impegnarci a pensare più sul lungo termine: le relazioni ecologiche vivono di rapporti sottili, necessari ma fragili, che hanno impiegato tempo a consolidarsi e che sono sempre in movimento, in continuo aggiustamento. Dovremmo allenarci a percepire le nostre azioni come inserite in questo flusso dinamico: forse, così, potremmo smetterla di pensare ad azioni puntuali e immediate per far fronte ad un problema senza considerarne gli effetti di lunga durata e ad ampio raggio.

 

 

BIBLIOGRAFIA E SITI DI RIFERIMENTO:

Martinelli Francesco, L’alieno è tra noi, in “National Geographic Italia”, luglio 2024, vol. 54, n°1, Milano, pp. 2-23.

Tricarico E, Lazzaro L, Giunti M, Bartolini F, Inghilesi AF, Brundu G, Cogoni A, Iiriti G, Loi MC, Marignani M, Caddeo A, Carnevali L, Genovesi P, Carotenuto L, Monaco A , Le specie aliene invasive: come gestirle. Guida tecnica per professionisti, 2019.

Guadagno Marcello, Granchio Blu, in “Il Giornale dei marinai”, agosto 2021.

https://www.specieinvasive.isprambiente.it/

https://www.lifeasap.eu/index.php/it/

https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/notizie-e-novita-normative/notizie-ispra/2021/08/il-granchio-blu-alieno-callinectes-sapidus-in-espansione-nel-mediterraneo

 

ENGLISH VERSION

All the quotes were in Italian and the traductions are mine.

In the volume of July 2024 of National Geographic Italia I read the article “L’alieno è tra noi” (“The alien is among us”) written by Francesco Martinelli. It gave me the opportunity to reflect on the blindness of some human decision when dealing with coexistance with other species. In particular, this article is dedicated to the Blue Crab, a species native of the Atlantic Ocean that since 2005 has colonized the Mediterranean Sea and found an ideal habitat in the Po Delta, in Italy.

At the moment in the UE this specie is considered “alien”, that is “a specie which has been transported by men, either intentionally or accidentally, outside its area of origin”.

However, it is not considered an invasive alien specie that ISPRA (the Italian Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) according to EU regulations defines as “exotic specie whose introduction and spread have negative impacts on biodiversity and related ecosystem services (i.e., the services that ecosystems provide to humans such as clean water and air, timber or pollination). Although the definition of invasive alien species refers only to environmental damage, many invasive species also have impacts on human health and the economy.” The European Union has a law, the Regulation 1143/14, that establishes rigid measure of treatment, prevention, control and eradication of invasive alien species. At the Italian national level this law has been applied since 2018, thanks to the “Decreto legislativo n° 230” 15 th december 2017.

Is interesting to note that, according to those laws, invasive alien species can’t be hunted, sold or transported in order to avoid further spread. At EU level there is a constantly updated list of species considered invasive alien “of Union concern”, that is “whose adverse effects are considered to require concerted action at Union level” (Tricarico et al., p.44 ).

The Blue Crab is not in this EU list: it was requested to be listed in 2023, but the procedure is quite lengthy as it requires a number of studies to assess its actual impact and whether this impact is relevant across the whole EU.

There will be many things to discuss around the “Blue Crab case in Italy”, but for now I limit this article to only one topic: the use of fishing to stem its expansion.

Even if the Blue Crab is not officially considered an invasive alien specie, it is a fact that it is spreading rapidly in the Po Delta and causing serious damages. Martinelli’s article is focused on the economic impact of this massive presence: preying on clams, damaging nets and catch, it puts the strain on local fishing enterprises linked to the breeding of the clam (Filipino clam…). But the most relevant problem for me is the damage to biodiversity: the Blue Crab is reaching extremely high population densities, competing and getting the better over native marine species.

The mentioned article (but also the informative brochure produced by the Italian newspaper il giornaledeimarinai.it, that collaborate with ISPRA in the collection of blue crab reports) take in serious consideration the strategy derived from seeing in the Blue Crab an economic resource. This strategy is not only been suggested, but also already put into practice: some clam farms are being converted into Blue Crab fishing companies; a solid and capillary chain to get the crab to supermarkets is going to be created; some chefs propose the Blue Crab in the menus claiming that it is “a great strength to insert in the menu alien species, to combine high cuisine and environmental awareness of what we eat”. (Martinelli, p. 15) “The aim is to stimulate crab consumption in all possible ways.” (Martinelli, p. 16).

To me this strategy seems incredibly blind, but I’m not the only one who is skeptical. “Among the management techniques to be adopted, many suggest promoting the food use of an invasive alien specie as a control method and a source of income (http://eattheinvaders.org/). However, this practice can be actually counterproductive: the invasive alien specie can enter popular culture to such an extent that the citizen does not want to eliminate it anymore, but rather can encourage its presence. It is therefore appropriate to be careful of indiscriminate use in this sense, so as not to create major problems” (Tricarico et al., p. 43).

The presence of the Blue Crab is a problem, of course, and its populations have to be controlled if we don’t want to risk the total habitat degradation and a flattening of local marine biodiversity. But making use of companies that have economic returns from the crab seems to me an extremely short-sighted reasoning. Anyone who can profit from this specie, although it may be moved intimately by the will to do a service to nature by eradicating it, will end up wanting its presence precisely because its profit are based on it. Once you have caught all the crabs (suppose it’s possible) what do you think these fishermen do? Will they re-convert to the clam, meanwhile disappeared? Or do you think there is a chance that they will start breeding crab in order to ensure a constant economic base?

If the economy was driven by ethics, perhaps and only perhaps, I might think that using economic activities that profit from a problem in order to eliminate the problem itself could be an effective way. But if the objective is to reduce and, ideally, eliminate a specie, how can we think of using those who make money from the crab?

One might think that the more we eat the crab, the better it is: by doing so, we actually get them out of the sea! And so the race opens to crab dishes… and do you think that at some point the restaurants, and therefore its supplier and consequently the fisherman, will say to customers “ah there is no more, we have eaten them all!”? Or will they find a way to ensure customer satisfaction? When demand increases, supply follows.

We should try to think more in the long term: ecological relationships live of thin, necessary and fragile relationships that have taken time to consolidate and are still in motion, in continuous adjustment. We should train ourselves to perceive our actions as inserted in this dynamic flow: perhaps, then, we could stop thinking of punctual and immediate actions to face a problem without considering its long-term and wide-ranging effects.

La coesistenza come rinuncia al potere. ENG below

La coesistenza come rinuncia al potere. ENG below

Coesistere, vivere assieme, essere con, significa condividere lo spazio con un altro riconoscendone non solo l’esistenza, ma anche la legittimità del suo starci accanto. Coesitiamo solo con coloro cui accordiamo il nostro stesso diritto di essere, vivere e abitare in uno spazio comune.

Coesistenza è la messa in pratica del riconoscimento della legittimità dell’altro.

Ognuno di noi, in quanto essere vivente, è una sorta di pacchetto di energia, con propri bisogni, desideri, volontà che lo spingono verso il mondo, che lo spingono a incontrare l’esterno per soddisfarsi.

Per quanto riguarda come usare questa energia, abbiamo diverse possibilità:

  1. possiamo scegliere di soddisfare i nostri bisogni non tenendo conto dell’Altro, ossia usurpando il suo spazio, schiacciandolo sotto il peso della nostra soddisfazione, non riconoscendo, di fatto, la legittimità della sua esistenza e del suo possedere un proprio conatus, propri desideri ed intenzioni. Questo rivela che implicitamente crediamo che i nostri interessi e bisogni siano prioritari e debbano prevalere su quelli altrui o perché di maggior valore, più importanti o per via della nostra (maggior) forza. In entrambe le ipotesi è previsto l’utilizzo del proprio potere, della propria spinta energetica, verso l’altro in maniera violenta, distruttiva e oppressiva.

  2. Altro scenario: ci riteniamo inferiori agli altri perché o meno importanti da un punto di vista valoriale o più deboli da un punto di vista di forza, anche fisica. Le implicazioni possono comunque essere distruttive, ma sicuramente non è un modo di stare al mondo generativo di vera coesistenza. Affinché quest’ultima sia solida e di lunga durata, infatti, credo sia necessario che ognuno di noi percepisca pari valore e legittimità tanto di sé stesso quanto di ogni altro.

  3. Ultima possibilità che menziono ha a che fare con la credenza in tutto ciò che ho elencato nel punto 1, ossia il crederci prioritari o più forti, e con la scelta di non usare il proprio potere in maniera violenta e oppressiva.

Ciò che intendo sostenere è che quest’ultima ipotesi rappresenti la strada per una coesistenza a lungo termine e ad ampio raggio, ossia in grado di estendersi a tutti gli altri possibili, pensabili e incontrabili. Riconoscere la legittimità dell’altro e metterla in pratica significa che, anche qualora fossimo in una posizione di forza e superiorità, sceglieremmo di abdicare questo potere.

La nostra energia, in questo caso, sarebbe rivolta all’atto di rinuncia stessa, ossia usata come forza per ‘posare il coltello’, come forza di rinuncia. A partire da questo atto si apre la strada della costruzione di coesistenza e, con lei, diverse possibilità di utilizzo costruttivo dell’energia vitale di ognuno. Una volta posato il coltello, potremmo convogliare le nostre energie in azioni di dialogo, ascolto, apertura e comprensione dell’altro, necessarie per connetterci, riconoscerci e accettarci reciprocamente.

Così può avere inizio il lungo e arricchente cammino della coesistenza.

Chi ha il coltello della parte del manico abbia il coraggio di posarlo per sempre.”

 

 

Coexistence as a renunciation of power

Coexisting, living together, being with, means sharing the space with another recognizing not only its existence, but also the legitimacy of its standing next to us. We only coexist with those to whom we grant our same right to be, live and inhabit in a common space. Coexistence is the practice of recognizing the legitimacy of the other.

Each of us, as living being, is a kind of energy package, with our own needs, desires, and will that push it towards the world, that push it to meet the outside in order to be satisfied.

Regarding how to use this energy, we have a number of different possibilities:

  1. We can chose to satisfy our needs without taking into account the other, that is usurping its space, crushing it under the weight of our satisfaction, not recognizing, in fact, the legitimacy of its existence and its own conatus, its own desires and intentions. This reveals that we implicity believe our interests and needs proritory and prevaling over other’s because they are of greater value or because of our phisical strenght. Both scenarios involve the use of our power, of our living energy, towards the other in a violent, destructive and oppressive manner.

  2. Other scenario: we feel inferior to others because less important from the point of view of values, or weaker. The implications can be destructive and for sure, I believe, this is not a way of living in the world able to generate true coexistence. For the latter to be solid and long-lasting, in fact, I believe it is necessary that each of us perceive himself and every other as having equal value and legitimacy.

  3. Last scenario I mention has to do with the believe in the point 1, that is in our being priority or stronger, and with the choice of not using our power in a violent and oppressive way.

The point I would make is that this last hypothesis represents the way to a long-term and wide-ranging coexistence, that is to say a coexistance extended to all possible, conceivable and achievable others. Recognizing the legitimacy of the other and putting it into practice means that even if we were in a position of strength and superiority, we would choose to abdicate this power.

Our energy, in this case, would be directed to the act of renunciation itself, that is used as a force to ‘put down the knife’, as a force of renunciation. This act opens the way to the construction of coexistence and, with her, to different possibilities of constructive use of each other’s vital energy. Once the knife is put down, we could channel our energies into actions of dialogue, listening, openness and understanding of the other, necessary to connect, recognize and accept each other.

Thus the long and enriching journey of coexistence can begin.

Who has the knife of the part of the handle have the courage to put it down forever”

Agenti semiotici, pazienti morali?

Agenti semiotici, pazienti morali?

Nell’articolo precedente (per leggerlo: www.filosofiapostumanista.it/2023/10/23/agenti-semiotici-pazienti-morali/) abbiamo visto perchè e come il concetto di agente semiotico possa essere utilizzato per determinare l’estensione della comunità morale: chi è un agente semiotico deve essere rispettato e quindi trattato moralmente. Ogni agente semiotico è un paziente morale. In questa sede, invece, vedremo se c’è un collegamento tra il concetto di agente semiotico e quello di agente morale, ossia se ogni agente semiotico, per essere paziente morale, deve anche essere un agente morale.

Come abbiamo visto, noi esseri umani siamo agenti morali, cioè siamo in grado di formulare certi principi etici e modellare la nostra condotta in accordo con essi. Agire moralmente implica molte restrizioni: rispettare l’altro e trattarlo in maniera etica significa non potersi comportare a piacimento, ma rispettare certi principi, limitandosi. Per esempio, potenzialmente potremmo uccidere, far soffrire senza motivo o derubare un altro ma, se egli è membro della nostra comunità morale, queste azioni sono moralmente scorrette, punibili e da evitare.

Una modalità molto diffusa e intuitiva per spiegare perchè è necessario limitarsi nei confronti del prossimo è ricorrere al concetto di reciprocità. Secondo questa tesi, un soggetto si autolimita solo nei confronti di coloro che possono fare altrettanto e i principi etici nascono grazie ad un accordo in grado di garantire il rispetto reciproco tra tutti coloro che ne prendono parte: tutti si limitano nei confronti di tutti, tutti si proteggono e rispettano reciprocamente.

Questo tipo di teoria etica è definita ‘contrattualismo morale’ e, sebbene diversi suoi sostenitori la riformulino in molteplici varianti, è possibile riassumere il suo nucleo con l’idea per cui i principi nascono da un contratto e un accordo reciproco tra pari. In questo modo, agenti morali e pazienti morali coincidono: ad essere protetti (e rispettati) sono tutti coloro che ‘firmano il contratto’ e che quindi si impegnano al contempo ad agire moralmente nei confronti degli altri firmatari. Si è pazienti morali, quindi, fintanto che è possibile comprendere i termini di questo contratto e avere coscienza tanto dei propri diritti quanto dei propri doveri.

Per fare in modo che i principi sanciti dal contratti siano equi, cioè non favoriscano gli interessi di una parte più o meno estesa dei firmatari, il filosofo statunitense John Rawls (1921-2002) immagina che essi vengano scelti da una società posta in una ‘posizione originaria’ (uno stato di natura non ancora organizzato e istituzionalizzato, dove tutti i soggetti sono eguali) caratterizzata da un ‘velo di ignoranza’ che fa sì che nessuno sappia che ruolo sociale rivestirà dopo l’entrata in vigore del contratto. Questo garantisce la scelta di principi equi, in grado di rispettare ognuno a prescindere da ruolo e posizione sociale, senza favorire interessi specifici.

Formulata così, la teoria contrattualista pone la razionalità come requisito fondamentale per essere agente e paziente morale: ad essere protetti e rispettati sono coloro che possono comprendere il contratto, impegnarsi a rispettare l’altro e quindi che hanno un certo grado di consapevolezza di sé, delle proprie azioni e degli altri. Questo significa che non solo vengono esclusi gli animali, ma anche gli esseri umani con problemi mentali, disturbi di apprendimento e i neonati. Quest’ultima esclusione, però, presenta diverse problematiche ed è contraria al senso comune, che invece generalmente accorda una rilevanza morale agli esseri umani ‘non razionali’. Una delle modalità per farli rientrare nella comunità morale è considerare questi uomini alla luce del canone di specie: la loro carenza di razionalità rappresenta un deficit rispetto alla normalità, un danno prodotto dal caso che non giustifica la loro degradazione a esseri moralmente irrilevanti. In quanto fondamentalmente esseri umani devono comunque essere rispettati.

Per gli animali, invece, la situazione è più complessa. Rimanendo nel framework del contrattualismo, essi possono entrare nella comunità morale solo in un secondo momento e per via indiretta, cioè facendo riferimento a ragioni di stabilità sociale o all’idea per cui chi fa del male agli animali è più disposto a farne anche agli uomini. Qualunque ragione venga apportata a sostegno di questa modalità indiretta di considerare gli animali come pazienti morali non mi soddisfa perchè significa negare che essi abbiano una rilevanza in sé. Credo sia necessaria, invece, una teoria che assegni direttamente valore morale agli animali.

Un’altra strada è quella percorsa da Tom Regan, filosofo americano (1938-2017) sostenitore di una teoria dei diritti degli animali. Nonostante sia contrario al contrattualismo ne elabora una versione in grado di estendere la moralità agli animali per via diretta. Egli ritiene che si possa immaginare una posizione originaria all’interno della quale il velo di ignoranza celi anche l’appartenenza di specie. Non sapendo, una volta sollevato il velo, in che essere vivente ci si ‘incarnerà’, verranno scelti principi equi intraspecifici, ossia principi che non rispecchino gli interessi umani e che siano in grado di proteggere e tutelare gli individui a prescindere dalla specie di appartenenza (Allegri, 2015, pp. 111-112).

Attività di immaginazione bellissima ma a mio avviso si tratta più di un esercizio retorico e astratto che di un’alternativa praticabile in modo significativo. Nella vita di tutti i giorni facciamo estrema difficoltà a prendere in considerazione come persone con disabilità vivono i nostri spazi, quali siano i loro interessi e bisogni. Non per forza per egoismo, ma perchè c’è un limite alla nostra esperienza dato ‘semplicemente’ dal nostro essere ciò che sì è: un uomo normo dotato ha un’esperienza del mondo che non è quella del disabile e alla quale non può realmente e direttamente accedere. Questo non significa, però, che nel formulare principi sociali, politici, morali, si debba sempre e solo proteggere i propri interessi nascondendosi dietro ‘eh ma io non lo posso capire’. Possiamo comprendere l’altro, ma sempre dal nostro punto di vista, cioè in maniera limitata. Con gli esseri umani è più semplice: immaginarci disabili è possibile, possiamo comprendere com’è l’esperienza di un disabile in maniera più intuitiva e veritiera rispetto a quanto possiamo farlo con l’esperienza di un altro animale. Questo perchè apparteniamo alla stessa specie, abbiamo le stesse coordinate generali di esperienza, gli stessi bisogni e interessi fondamentali. L’esercizio di immaginazione è più difficile da applicare quando l’altro appartiene ad un’altra specie, ma non è impossibile: siamo comunque tutti animali (e ciò significa che certi bisogni ci accomunano) e la conoscenze etologiche, biologiche e fisiologiche possono fornire gli strumenti adatti a comprendere più a fondo l’altro animale.

Il problema principale, però, è un altro ed è il cuore stesso delle teorie contrattualistiche: la reciprocità. È davvero necessario che un individuo, per essere paziente morale, debba anche essere agente morale? Potremmo comunque avere principi restrittivi nei confronti di qualcuno che non può ricambiarci il favore?

Una critica che a parer mio coglie nel segno è quella formulata da James Rachels nel testo “Creati dagli animali”. Il filosofo americano nota come ciò che dalle teorie contrattualistiche emerge come requisito per essere sia agente che paziente morale, in verità rappresenta solo le condizioni affinchè un individuo sia solo agente morale. Per poter agire moralmente è necessario avere un certo grado di razionalità: bisogna saper comprendere cosa siano e quali siano i propri diritti e doveri e quali azioni rappresentino un danno per le altre esistenze. Questi, però, non sono caratteri rilevanti per essere un paziente morale.

Si pensi alla sofferenza: manganellare un cane è sbagliato non perchè quest’ultimo è razionale, cioè, per esempio, in grado di comprendere il danno subito, ma perchè il cane è un essere sensibile e in grado di provare dolore. La razionalità è necessaria solo all’agente morale per comprendere chi ha di fronte, quali suoi gesti possono urtare l’altro, per stabilire e poi seguire principi etici, per ritenersi responsabile (ecc.). Ma non è la presenza di razionalità nel cane a rendere la manganellata moralmente scorretta nei suoi confronti: è il fatto che quel gesto lo urta, provocando dolore. Alla base c’è la capacità del cane di soffrire: questo lo rende, in questo caso, un paziente morale. Dico in questo caso perchè, come Rachels stesso nota, le caratteristiche moralmente rilevanti di un essere sono differenti, a seconda del trattamento in questione. Isolare un elefante in una gabbia, per esempio, è sbagliato perchè lede un bisogno fondamentale di socialità. Certo, produce sofferenza, ma non solo quella fisica dell’esempio della manganellata. Lo stesso isolamento potrebbe non essere moralmente scorretto per un animale solitario e non gregario, che non ha bisogno di relazioni sociali stabili e durature. Esseri viventi differenti hanno caratteristiche diverse e questo fa sì che i trattamenti giusti e sbagliati si diversifichino, a seconda dell’impatto che hanno su tali caratteristiche.

La razionalità potrebbe rientrare tra i caratteri moralmente rilevanti ma non è la sola e non può essere utilizzata come unico attributo per qualificare un essere come paziente morale. A farlo sono piuttosto una serie di caratteri quali la sensibilità, il possesso di una vita autonoma che segue una propria traiettoria, che intesse relazioni significative e vitali con l’ambiente circostante. Tutti caratteri compresi nel concetto di ‘agente semiotico’. Per questo motivo credo che quest’ultimo sia il candidato ideale per delineare l’estensione della comunità morale e una volta fatta questa operazione, consenta anche di prestare attenzione a come ciascun individuo declini il suo essere un agente semiotico (in maniera tanto singolare quanto specie-specifica), a quali caratteristiche siano moralmente rilevanti per il tipo di trattamento specifico, e permetta di comprendere come egli debba essere trattato.

Ritornando ancora al contrattualismo, ci sono altre obiezioni che possono essere mosse all’idea per cui il cardine della moralità sia la reciprocità. La prima è che non possiamo aspettare che l’altro rispetti noi per fare altrettanto: si entrerebbe in un loop in cui nessuno mai inizia a comportarsi moralmente per paura che l’altro non faccia lo stesso. Una situazione di paralisi. Questo si lega al secondo aspetto: che un essere vivente sia in grado di comprendere che le sue azioni hanno il potenziale di urtare un altro soggetto, cioè che abbia coscienza di sé come agente morale, è sufficiente affichè egli si interroghi sulla moralità delle proprie azioni e agisca di conseguenza. Non ha bisogno della conferma che anche l’altro si preoccupi in tal modo. La responsabilità è prettamente individuale: le azioni compiute da un soggetto sono particolari, uniche, avvengono in situazioni e contesti spazio-temporali irripetibili e dunque possono essere compiute solo da quel particolare soggetto. Esse, perciò, sono imputabili soltanto a lui. Ognuno, dunque, avendo compreso il potenziale del proprio agire, deve ritenersi il primo responsabile ed agire di conseguenza, indipendentemente dal fatto che gli altri soggetti facciano altrettanto.

Certo, rimane la possibilità di giudicare un altro agente morale che non si fa carico di questa responsabilità, ma non credo sia possibile trovare nell’irresponsabilità altrui una giustificazione per la propria. Per lo stesso motivo trovo insensato biasimare il leone perchè uccide una gazzella e affermare che, dal momento che gli animali non seguono principi morali, noi non dovremmo seguirne nei loro confronti.

Noi esseri umani siamo in grado di formulare principi etici? Sì.

Comprendiamo di avere certe responsabilità, obblighi e doveri? Sì.

Se si concorda sul fatto che anche gli animali possono esseri lesi dal nostro agire, non possiamo tirarci indietro dalle nostre responsabilità nei loro confronti.

Ultimo aspetto che vorrei trattare è la possibilità che gli animali facciano del male all’essere umano. È vero, è possibile, allo stesso modo in cui ci si uccide tra esseri umani stessi. È indubbio, però, che l’influenza umana su di loro è enorme e la quantità di sofferenza che l’essere umano infligge è spropositata (e anche bel celata, se si pensa alla distanza dalle nostre vite e all’impenetrabilità di laboratori, allevamenti industriali e macelli). Non li colpiamo solo direttamente (uccidendoli, testando su di loro prodotti chimici, per esempio), ma anche indirettamente, con azioni che sono in grado di impattare sulle condizioni di vita sulla Terra. Mi riferisco all’inquinamento delle acque e dei suoli, all’emissione di anidride carbonica, alla deforestazione. È necessario tenere a mente che queste non sono dinamiche ‘più grandi del singolo’, o meglio, in un certo senso lo sono perchè non è nessuna singola azione a provocarle. Però esse sono il risultato di numerosissime azioni di singoli individui. Ognuno di noi ha la possibilità di agire in senso opposto, di fare qualcosa il cui impatto non sarà di certo visibile ma se unito ad una moltitudine di altra azioni può fare la differenza. Se un insieme di azioni individuali ha questi effetti devastanti sul pianeta, solo un insieme di azioni individuali può cambiare la rotta.

La responsabilità umana è enorme, l’impatto che le azioni di ognuno di noi possono produrre ha scala grandissima. Partiamo da qua: dal ripensarci come esseri inseriti nell’ambiente tra altri esseri viventi, e ripartiamo ripensando a cosa il nostro agire produce in questo ecosistema condiviso che è la Terra.

RIFERIMENTI:

Adams Carol J., Alice Crary, Lori Gruen, The Good It Promises, the Harm It Does : Critical Essays on Effective Altruism. Oxford University Press, New York, 2023.

Allegri Francesco, Gli animali e l’etica, Mimesis, Milano, 2015.

Franklin Julian H., Animal Rights and Moral Philosophy, Columbia University Press, New York, 2005.

Kahane Howard, Contract Ethics : Evolutionary Biology and the Moral Sentiments. Lanham, Md. ; Rowman & Littlefield, 1995.

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

PER APPROFONDIRE:

Rawls John, A theory of justice. Rev. Oxford University Press, Oxford, 1999.

Regan Tom, The case for animal rights, University of California Press, Berkeley, 2014.

Agenti semiotici, pazienti morali

Agenti semiotici, pazienti morali

La biosemiotica è un disciplina recente, sviluppatasi dagli anni ’90 del secolo scorso, anche se fa propri metodi, idee e concetti sviluppati precedentemente in altri ambiti (quello della semiotica, in particolare) e riprende intuizioni già presenti nei testi di Von Uexkull, biologo ed etologo vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900.

Se la semiotica è lo studio dei segni in particolare nell’ambito della cultura umana, la bio-semiotica estende questo studio all’ambito della vita biologica. Essa propone di pensare alla vita come a qualcosa che ha a che fare con la percezione di significati e l’azione ad essi coordinata. Il paradigma della biosemiotica si estende dalle piante agli animali, fino alle cellule e agli ecosistemi: tutto ciò che riguarda la vita, secondo la biosemiotica, può essere interpretato come qualcosa che intrattiene relazioni con l’esterno basate su scambio e interpretazione di segni.

In questa sede ci limitiamo a considerare l’interpretazione biosemiotica degli animali (zoosemiotica) e mostreremo perchè è rilevante per la nostra moralità.

Partiamo subito col dire che il paradigma biosemiotico si oppone a quello meccanicista, che vede gli animali come macchine, ‘qualcosa’ che risponde in maniera fissa e automatica agli stimoli esterni. Seppur questa interpretazione sia datata (risale a Cartesio, nel 600) e pochi ammetterebbero ad alta voce di sostenerla, è ancora più diffusa di quanto non si immagini. Ogni volta che si avanza un dubbio sulla capacità degli animali di imparare, sul loro disinteresse per le condizioni della propria vita, sulla loro incapacità di comunicare, ecco che si è Cartesiani.

L’animale biosemiotico è un agente semiotico, ossia un essere attivo in grado di percepire gli stimoli esterni, dotarli di un significato e agire in maniera coerente a questo. La novità di questo paradigma è l’interpretazione dei rapporti tra animale e ambiente esterno come rapporti basati su segni e significati. Quando percepito, uno stimolo non è mai neutro, ma riveste un significato, ossia è segno che rimanda ad altro. Una crocchetta non è ‘massa solida marrone’ ma ‘cibo’, un nido non è ‘struttura concava’ ma ‘riparo’. In accordo con questi significati, l’animale attua un comportamento coerente: mangiare la crocchetta, ripararsi nel nido.

Ora, i significati sono un’entità particolare. Ad ogni oggetto non corrisponde un solo significato, ma tanti quanti sono gli agenti semiotici che lo percepiscono. Un nido è ‘riparo’ ma è anche ‘luogo da saccheggiare per prendere cibo’. Ma, complicazione su complicazione, uno stesso oggetto o situazione esterna può avere diversi significati anche per lo stesso soggetto. Le condizioni interne di un organismo, ossia stato emotivo, bisogni e necessità contingenti, determinano il modo in cui esso percepisce l’esterno e i significati attribuiti. Sarà capitato a tutti di sedersi su una sedia per mangiare al tavolo o usarla come sgabello per arrivare allo sportello più alto della cucina: necessità differenti fanno sì che la stessa situazione sia dotata di diversi significati. Questo avviene anche per gli animali, come per il paguro che si ciba dell’anemone quando ha fame o la usa come riparo quando si sente in pericolo. Questa moltiplicazioni di possibili sensi significa che essi non sono immanenti agli oggetti. Non sono, però, nemmeno una libera invenzione degli animali: la realtà non si lascia plasmare ad libitum, ma pone limiti e freni alle possibili interpretazioni. Una crocchetta può essere cibo, ma non riparo. I significati, dunque, sono un’entità ibrida che sorge all’incrocio tra il soggetto, il suo stato interno e la situazione esterna dove quest’ultima suggerisce un range di possibili letture.

Tutto ciò implica il fatto che non esista un significato assolutamente vero e uno assolutamente falso: certo, è possibile che un organismo si bagli totalmente nell’interpretazione (pensiamo alle illusioni, per esempio), ma non è possibile affermare che esista uno e un solo modo di interpretare il reale. Ce ne sono tanti quanti organismi e ogni significato è vero per l’organismo che lo attribuisce.

Come si capisce, il paradigma biosemiotico non vede nulla di fisso e automatico nel comportamento animale come invece voleva il meccanicismo: ogni essere vivente è attivo nell’interpretare la realtà, libero di dare significati nei limiti posti dalla realtà stessa e in grado di agire sulla base della propria interpretazione. Per riassumere si potrebbe dire che l’agente semiotico è colui che, interpretando i segni esterni, utilizza questi come informazioni per modellare il proprio comportamento.

Passiamo ora all’aspetto della moralità che credo fortemente necessiti di una revisione alla luce della teoria biosemiotica. In particolare sono convinta del legame profondo tra i concetti di agente semiotico e paziente morale.

Per paziente morale si intende colui che è beneficiario di un trattamento morale, cioè colui verso il quale si dirigono le preoccupazioni morali. L’agente morale, invece, è colui che si pone il problema della moralità e agisce in base ai suoi principi. Non è questa la sede per discutere della possibilità (o necessità?) che ogni animale sia anche agente morale, ma è un argomento interessante di cui rimando la discussione al prossimo articolo.

Noi siamo agenti morali e ancora oggi ci preoccupiamo davvero troppo poco degli altri animali. Sono convinta che il paradigma biosemiotico possa rispondere in maniera esaustiva al domande come: perchè dovremmo estendere la nostra moralità a tutti gli animali? Perchè ci dovrebbe importare di loro? Perchè dovremmo farne dei pazienti morali? Le risposte stanno nel concetto di agente semiotico.

Come abbiamo visto, l’agente semiotico è un organismo in grado di percepire e dare autonomamente un senso a ciò che avverte dell’esterno. Anche le azioni umane incrociano gli organi percettivi degli altri organismi, che dunque le interpretano e dotano di un significato. Come già detto sopra, i significati non sono univoci, ma ne esistono tanti quanti sono gli agenti semiotici. Quando ci mettiamo in relazione con un essere vivente le nostre azioni possono essere percepite e interpretate in modi differenti dal nostro, in modi che noi, in quanto esseri umani, non possiamo né determinare né prevedere appieno perchè sono relativi all’altro soggetto, ai suoi organi percettivi e stati interni.

Come abbiamo già detto, non esiste un significato vero in assoluto, perciò non è possibile farne una scala gerarchica: il sistema semiotico umano è uno dei tanti possibili, non il migliore e non quello più ‘vero’, ma è uno dei tanti possibili, tutti differenti gli uni dagli altri e tutti posti sullo stesso piano valoriale. Questo perchè ogni sistema semiotico è vero relativamente al soggetto che lo ‘abita’. Questo significa che non possiamo appellarci ad una qualche ‘supremazia’ per schiacciare sistemi semiotici non umani.

Ogni animale, in quanto agente semiotico, è una prima persona percettiva che non recepisce passivamente gli stimoli esterni ma attivamente li interpreta e utilizza per agire: è interessato agli stimoli e sensibile nei loro confronti. Le nostre azioni nei confronti di un animale, dunque, lo concernono, vengono recepite e utilizzate da lui come segni e informazioni per l’azione: hanno, cioè, un impatto sulla conduzione della sua esistenza.

Le nostre azioni, però, non impattano solo direttamente sugli animali ma possono anche urtali indirettamente andando a ledere le relazioni semiotiche significative che intrattengono con l’ambiente circostante. Abbattendo una foresta, per esempio, potremmo aver cura di non uccidere attivamente gli animali che vi abitano, ma questo non è sufficiente: la foresta è significativa per questi esseri. Abbattendola stiamo facendo venir meno una relazione importante per loro. Il nostri interesse deve prevalere? Abbattere foreste è un bisogno vitale per l’essere umano? No. Se facciamo nostro il paradigma biosemiotico dobbiamo riconoscere che foresta non è solo ‘legna su cui guadagnare’ ma anche ‘casa’, ‘protezione’, ‘luogo di caccia’ e non siamo giustificati a far prevalere il nostro interesse (non vitale) su altri (ben più vitali) di altri soggetti. Preservare un organismo, insomma, significa preservarne la vita e anche le relazioni significative e vitali che intrattiene con l’esterno.

In conclusione, in quanto esseri umani dobbiamo riconoscere di non essere gli unici agenti semiotici, che i nostri significati, le nostre relazioni con l’esterno non sono né le uniche né quelle di maggior valore. Dobbiamo fare un passo indietro e chiederci giorno dopo giorno se con le nostre azioni stiamo urtando qualcuno che ha il nostro stesso diritto ad essere.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Agency in Non-human Organisms, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 95-122, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, p. 96.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Conceptualizing Agency, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 153-188, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, pp. 163-164.

Tønnessen Morten, Umwelt Transitions: Uexküll and Environmental Change, in “Biosemiotics”, Vol. 2, n° 1, 2009, pp. 47-64, DOI 10.1007/s12304-008-9036-y, consultato in data 11/11/2022.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale” è un testo ormai datato. Scritto da Frederick Jacobus Johannes Buytendijk (1887-1974), antropologo, biologo e psicologo olandese, nel 1962 rimane un testo affascinante per diversi aspetti e, nonostante la psicologia comparata e in generale gli studi sul comportamento animale abbiano fatto passi da gigante da allora, vi si possono leggere note importanti soprattutto di carattere epistemologico e metodologico.

Così come fa l’autore nel testo, partiamo da una chiarificazione: la psicologia comparata non si occupa di ciò che uomini o altri animali hanno ‘nella mente’, ma “ha il compito di ricercare, cioè di descrivere e spiegare le affinità, le analogie e le differenze nel comportamento”(p. 7).

Cosa centra la psicologia col comportamento? Molto, a dire il vero e questo perchè il comportamento è un certo tipo di azione, un’azione con caratteri peculiari che la contraddistinguono dalla caduta di un masso o dal movimento delle foglie, per esempio. Il comportamento è un agire che ha significato in una specifica situazione, è una “forma di manifestazione di un rapporto significativo fra un uomo o un animale e il mondo che lo circonda” (p. 17). Il comportamento ha a che fare con l’essere in situazione di un soggetto, cioè il suo essere calato in un contesto dinamico che ha per lui un certo significato, sulla base del quale modula le sue azioni.

Si capisce, dunque, perchè Buytendijk ritenga analisi fisiologica e anatomica insufficienti a spiegare il ‘perchè’ un organismo si comporti in un certo modo: studiando le cause fisiche e chimiche dei processi vitali e quelle strutturali del corpo vengono messe in luce solo le condizioni del comportamento, cioè il range di possibilità di movimento ed espressione proprie di ogni animale. Esse spiegano ciò che un animale può fare, non il perchè faccia ciò che fa. Una più completa analisi del comportamento non può prescindere da uno studio sui motivi di esso. Il motivo è un fattore che agisce qualitativamente e non quantitativamente nella determinazione del comportamento di un soggetto e, sebbene non se ne trovi una definizione esplicita nel testo, possiamo intenderlo come la risultante del rapporto tra l’animale, la situazione e il significato che essa riveste per il primo.

Chiariamo questo punto. Secondo Buytendijk il rapporto tra organismo e ambiente non è unidirezionale, ma vicendevole. L’ambiente è sorgente di stimoli che non agiscono semplicemente come cause meccaniche in grado di determinare automaticamente certe reazioni nell’animale. Gli stimoli hanno un aspetto qualitativo: il significato che viene loro attribuito dall’organismo che li percepisce.

Ogni soggetto, quindi, non è totalmente passivo di fronte all’ambiente, non è un contenitore vuoto che accoglie gli stimoli così come sono, ma, come già affermava Uexkull nei suoi testi, è attivo sia nel dare un significato agli stimoli percepiti, sia nella percezione stessa. Da una parte, infatti, gli organi sensoriali agiscono come a-priori esperienziali permettendo al soggetto l’accesso solo a determinati stimoli, dall’altra perchè lo stato interno del soggetto stesso determina il modo in cui tali stimoli vengono percepiti. In ogni istante della sua vita, ogni organismo si trova nell’ambiente in una certa ‘disposizione’, cioè con certi stati d’animo, desideri, necessità che determinano la maniera in cui il soggetto percepisce la situazione e il significato che le attribuisce. Personalmente trovo molto efficace per chiarire questo punto l’esempio fatto da Uexkull in “Ambienti animali e ambienti umani” circa il rapporto tra paguro e anemone: quanto incontra quest’ultima, il primo attua diversi comportamenti, dimostrando di proiettare diversi significati sull’anemone. Se è affamato, il paguro si avvicina per mangiarla: l’anemone, in questo caso è ‘cibo’; ma se si trova privo di una conchiglia protettiva e in situazione di pericolo, il paguro la utilizza come riparo nascondendosi al suo interno: l’anemone, ora, è ‘rifugio’.

Il rapporto soggetto-ambiente, dunque, non è unidirezionale, ma circolare, dove l’uno determina l’altro e viceversa, ed è “implicativo, cioè (…) corrisponde all’espressione ‘quando-allora’” (p. 51), poiché, date certe condizioni ambientali percepite in un certo modo e rivestite di un certo significato, l’animale attua un comportamento in risposta ad esse. Ecco allora che la motivazione è quel fattore qualitativo nella determinazione di un comportamento che sorge all’incrocio tra i due vettori di questo rapporto reciproco; essa è uno stimolo significativo, letto attraverso la lente della disposizione del soggetto, che spinge quest’ultimo a comportarsi in un determinato modo.

Questo nucleo teorico mi sembra interessante e attuale. Diversi filosofi si troverebbero d’accordo con questa lettura del comportamento e, personalmente, la ritengo incredibilmente trasformativa: è una lente concettuale che ci permettere di pensare in maniera differente noi esseri umani, gli altri animali e i rapporti che ci legano. Non macchine, non esseri passivi, ma ‘menti’ che interpretano il mondo e rispondono ad esso.

Altro spunto interessante è la convinzione di Buytendijk nel considerare come condizione preliminare per lo studio della psicologia comparata il riconoscimento di una continuità tra uomo e animale. Per questo motivo afferma che la psicologia comparata è legata all’antropologia: a seconda della concezione dell’uomo assunta cambia la possibilità e la metodologia con cui si effettua la comparazione. Se si concepisce l’umano come elevato, lontano e totalmente differente dagli altri animali, non c’è spazio per la comparazione.

Buytendijk opta per la continuità e quindi per la possibilità di una comparazione. Nel farlo, però, è importante non cadere nell’errore di utilizzare ciò che è umano come metro di misura per valutare le altre esistenze. Più volte l’autore mette in guardia circa la necessità di tener conto del fatto che quando si parla di comportamento, situazione o azione ‘significative’, questo ‘significative’ è da intendere come ciò che è tale per il soggetto che la osserva o compie, non per l’osservatore che la studia. Questo è estremamente importante e assolutamente in linea con le ricerche attuali in campo biosemiotico: se consideriamo ogni organismo un soggetto il cui comportamento è motivato da un certo significato che una situazione riveste ai suoi occhi, allora per comprendere le azioni altrui non dobbiamo rifarci al significato che la situazione assume per i nostri occhi umani, ma a quello assunto per l’occhio dell’animale coinvolto. Questo significa riportare l’uomo tra gli animali come uno di essi, come uno dei tanti sguardi sullo spettacolo del mondo. Ma significa anche ammettere la possibilità di non comprendere affatto un comportamento osservato. Non possiamo sapere tutto perchè non siamo osservatori puri o onniscenti, ma sempre calati in un certo modo di vedere, percepire, dare significato al mondo. L’agire altrui è un comportarsi ed esiste come tale anche quando non lo comprendiamo: è un agire significativo per altre menti, altri corpi e altre letture del mondo cui non possiamo accedere. Non dobbiamo farlo scadere a meccanismo pur di affermare di poterlo studiare e analizzare per comprenderlo a fondo ed esaurirlo. Lasciamo che l’ignoto continui a sorprenderci.

Lungo il testo, comunque, Buytendijk non rinuncia a sottolineare e ricercare ciò che contraddistingue l’uomo, ritrovandolo in diversi aspetti del comportamento che vanno dalla capacità astrattive, creativa e immaginativa al linguaggio articolato. Ci sarebbe molto da dire e puntualizzare: non sembra che questa analisi proceda verso una ricerca di elevazione dell’uomo (come abbiamo detto, opta per una continuità e quindi le differenze sono più gradi che salti qualitativi), ma molti aspetti del comportamento da lui definiti come ‘propri dell’uomo’ non mi soddisfano e oggi non li riterremmo più tali. Per un approfondimento vi invito a leggere il testo ma potrebbero essere temi ripresi nei prossimi articoli su questo blog.

Spunti estremamente interessanti si trovano nell’ultimo capitolo, dedicato all’analisi dell’intelligenza. Coerentemente con quanto sostenuto lungo il testo, Buytendijk afferma che “l’intelligenza del comportamento può essere giudicata solo dal punto di vista del soggetto, dalla sua esperienza, dai suoi impulsi e dal tipo di significato che alla situazione dà il soggetto stesso” (p. 137). Questo passaggio è estremamente fecondo. Innanzitutto perchè mette in dubbio la validità di tutta una serie di esperimenti sugli animali grazie ai cui risultati è stato possibile giudicare come privi di intelligenza gli animali non umani. La stessa situazione, si è detto, è percepita e interpretata in modi differenti da esseri viventi differenti. Sottoponendo un animale ad un test tarato sulle abilità percettive e cognitive umane per determinare se sia intelligente o meno stiamo in realtà sostenendo che l’unica forma di intelligenza possibile sia quella umana; stiamo dando per scontato che l’unico modo di leggere il mondo sia quello umano e stiamo disconoscendo il punto di vista dell’animale sulla situazione.

Con questi esperimenti stiamo sottoponendo all’animale le domande sbagliate, domande tarate sulle capacità e percezione umane, domande che, se incrociano i sensi dell’altro animale, non lo fanno allo stesso modo nostro e che, se rivestono ai suoi occhi un significato, è possibile ne rivestano tanti differenti quanti sono i sensi che li percepiscono. A parità di situazione e di problema da risolvere specie diverse possono comportarsi in maniera diversa, ma questo non significa che certi comportamenti sono più intelligenti di altri: sono modi diversi di rispondere ad una stessa situazione percepita in maniera diversa e dotata di significati differenti (p. 150). Dunque, non esiste una sola risposta ‘intelligente’ o ‘corretta’ ed è ingenuo giudicare come non intelligente un animale che semplicemente non si comporta come farebbe l’essere umano. Intelligenza non è sinonimo di intelligenza umana: ci sono tante intelligenze differenti che fanno riferimento alle possibilità fisiche, biologiche e cognitive di ogni animale (p. 146).

Per giudicare come intelligente un certo comportamento, dunque, dobbiamo prima conoscere a fondo l’animale e i suoi comportamenti ‘normali’. A partire da questo, Buytendijk definisce come intelligente un comportamento non dettato dall’abitudine, ma dall’esperienza sensibile (p. 138), “un comportamento organizzato” (p. 140) che ha senso nei confronti della situazione. Intelligente è un comportamento che tiene conto del contesto e si adatta ad esso, rispondendo in modo adeguato secondo la lettura, il significato che una situazione ha per ciascun soggetto.

Per quanto ormai datato questo testo è una miniera di spunti di riflessione da riprendere, contestualizzare e aggiornare con l’apporto delle scoperte più recenti. Credo che proprio per la sua capacità di veicolare un certo modo di pensare ad uomo e animale che oggi non è ancora stato metabolizzato dal pensiero comune si possa considerare ‘attuale’ e suggerire come una lettura ancora valida, ancora in grado di parlare.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Frederik Jacobus Johannes Buytendijk, Psicologia umana e psicologia animale, Garzanti, Milano, 1962.

Jakob von.Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani : una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata, 2019.