Filosofia Postumanista Italia

Agenti semiotici, pazienti morali?

Nell’articolo precedente (per leggerlo: www.filosofiapostumanista.it/2023/10/23/agenti-semiotici-pazienti-morali/) abbiamo visto perchè e come il concetto di agente semiotico possa essere utilizzato per determinare l’estensione della comunità morale: chi è un agente semiotico deve essere rispettato e quindi trattato moralmente. Ogni agente semiotico è un paziente morale. In questa sede, invece, vedremo se c’è un collegamento tra il concetto di agente semiotico e quello di agente morale, ossia se ogni agente semiotico, per essere paziente morale, deve anche essere un agente morale.

Come abbiamo visto, noi esseri umani siamo agenti morali, cioè siamo in grado di formulare certi principi etici e modellare la nostra condotta in accordo con essi. Agire moralmente implica molte restrizioni: rispettare l’altro e trattarlo in maniera etica significa non potersi comportare a piacimento, ma rispettare certi principi, limitandosi. Per esempio, potenzialmente potremmo uccidere, far soffrire senza motivo o derubare un altro ma, se egli è membro della nostra comunità morale, queste azioni sono moralmente scorrette, punibili e da evitare.

Una modalità molto diffusa e intuitiva per spiegare perchè è necessario limitarsi nei confronti del prossimo è ricorrere al concetto di reciprocità. Secondo questa tesi, un soggetto si autolimita solo nei confronti di coloro che possono fare altrettanto e i principi etici nascono grazie ad un accordo in grado di garantire il rispetto reciproco tra tutti coloro che ne prendono parte: tutti si limitano nei confronti di tutti, tutti si proteggono e rispettano reciprocamente.

Questo tipo di teoria etica è definita ‘contrattualismo morale’ e, sebbene diversi suoi sostenitori la riformulino in molteplici varianti, è possibile riassumere il suo nucleo con l’idea per cui i principi nascono da un contratto e un accordo reciproco tra pari. In questo modo, agenti morali e pazienti morali coincidono: ad essere protetti (e rispettati) sono tutti coloro che ‘firmano il contratto’ e che quindi si impegnano al contempo ad agire moralmente nei confronti degli altri firmatari. Si è pazienti morali, quindi, fintanto che è possibile comprendere i termini di questo contratto e avere coscienza tanto dei propri diritti quanto dei propri doveri.

Per fare in modo che i principi sanciti dal contratti siano equi, cioè non favoriscano gli interessi di una parte più o meno estesa dei firmatari, il filosofo statunitense John Rawls (1921-2002) immagina che essi vengano scelti da una società posta in una ‘posizione originaria’ (uno stato di natura non ancora organizzato e istituzionalizzato, dove tutti i soggetti sono eguali) caratterizzata da un ‘velo di ignoranza’ che fa sì che nessuno sappia che ruolo sociale rivestirà dopo l’entrata in vigore del contratto. Questo garantisce la scelta di principi equi, in grado di rispettare ognuno a prescindere da ruolo e posizione sociale, senza favorire interessi specifici.

Formulata così, la teoria contrattualista pone la razionalità come requisito fondamentale per essere agente e paziente morale: ad essere protetti e rispettati sono coloro che possono comprendere il contratto, impegnarsi a rispettare l’altro e quindi che hanno un certo grado di consapevolezza di sé, delle proprie azioni e degli altri. Questo significa che non solo vengono esclusi gli animali, ma anche gli esseri umani con problemi mentali, disturbi di apprendimento e i neonati. Quest’ultima esclusione, però, presenta diverse problematiche ed è contraria al senso comune, che invece generalmente accorda una rilevanza morale agli esseri umani ‘non razionali’. Una delle modalità per farli rientrare nella comunità morale è considerare questi uomini alla luce del canone di specie: la loro carenza di razionalità rappresenta un deficit rispetto alla normalità, un danno prodotto dal caso che non giustifica la loro degradazione a esseri moralmente irrilevanti. In quanto fondamentalmente esseri umani devono comunque essere rispettati.

Per gli animali, invece, la situazione è più complessa. Rimanendo nel framework del contrattualismo, essi possono entrare nella comunità morale solo in un secondo momento e per via indiretta, cioè facendo riferimento a ragioni di stabilità sociale o all’idea per cui chi fa del male agli animali è più disposto a farne anche agli uomini. Qualunque ragione venga apportata a sostegno di questa modalità indiretta di considerare gli animali come pazienti morali non mi soddisfa perchè significa negare che essi abbiano una rilevanza in sé. Credo sia necessaria, invece, una teoria che assegni direttamente valore morale agli animali.

Un’altra strada è quella percorsa da Tom Regan, filosofo americano (1938-2017) sostenitore di una teoria dei diritti degli animali. Nonostante sia contrario al contrattualismo ne elabora una versione in grado di estendere la moralità agli animali per via diretta. Egli ritiene che si possa immaginare una posizione originaria all’interno della quale il velo di ignoranza celi anche l’appartenenza di specie. Non sapendo, una volta sollevato il velo, in che essere vivente ci si ‘incarnerà’, verranno scelti principi equi intraspecifici, ossia principi che non rispecchino gli interessi umani e che siano in grado di proteggere e tutelare gli individui a prescindere dalla specie di appartenenza (Allegri, 2015, pp. 111-112).

Attività di immaginazione bellissima ma a mio avviso si tratta più di un esercizio retorico e astratto che di un’alternativa praticabile in modo significativo. Nella vita di tutti i giorni facciamo estrema difficoltà a prendere in considerazione come persone con disabilità vivono i nostri spazi, quali siano i loro interessi e bisogni. Non per forza per egoismo, ma perchè c’è un limite alla nostra esperienza dato ‘semplicemente’ dal nostro essere ciò che sì è: un uomo normo dotato ha un’esperienza del mondo che non è quella del disabile e alla quale non può realmente e direttamente accedere. Questo non significa, però, che nel formulare principi sociali, politici, morali, si debba sempre e solo proteggere i propri interessi nascondendosi dietro ‘eh ma io non lo posso capire’. Possiamo comprendere l’altro, ma sempre dal nostro punto di vista, cioè in maniera limitata. Con gli esseri umani è più semplice: immaginarci disabili è possibile, possiamo comprendere com’è l’esperienza di un disabile in maniera più intuitiva e veritiera rispetto a quanto possiamo farlo con l’esperienza di un altro animale. Questo perchè apparteniamo alla stessa specie, abbiamo le stesse coordinate generali di esperienza, gli stessi bisogni e interessi fondamentali. L’esercizio di immaginazione è più difficile da applicare quando l’altro appartiene ad un’altra specie, ma non è impossibile: siamo comunque tutti animali (e ciò significa che certi bisogni ci accomunano) e la conoscenze etologiche, biologiche e fisiologiche possono fornire gli strumenti adatti a comprendere più a fondo l’altro animale.

Il problema principale, però, è un altro ed è il cuore stesso delle teorie contrattualistiche: la reciprocità. È davvero necessario che un individuo, per essere paziente morale, debba anche essere agente morale? Potremmo comunque avere principi restrittivi nei confronti di qualcuno che non può ricambiarci il favore?

Una critica che a parer mio coglie nel segno è quella formulata da James Rachels nel testo “Creati dagli animali”. Il filosofo americano nota come ciò che dalle teorie contrattualistiche emerge come requisito per essere sia agente che paziente morale, in verità rappresenta solo le condizioni affinchè un individuo sia solo agente morale. Per poter agire moralmente è necessario avere un certo grado di razionalità: bisogna saper comprendere cosa siano e quali siano i propri diritti e doveri e quali azioni rappresentino un danno per le altre esistenze. Questi, però, non sono caratteri rilevanti per essere un paziente morale.

Si pensi alla sofferenza: manganellare un cane è sbagliato non perchè quest’ultimo è razionale, cioè, per esempio, in grado di comprendere il danno subito, ma perchè il cane è un essere sensibile e in grado di provare dolore. La razionalità è necessaria solo all’agente morale per comprendere chi ha di fronte, quali suoi gesti possono urtare l’altro, per stabilire e poi seguire principi etici, per ritenersi responsabile (ecc.). Ma non è la presenza di razionalità nel cane a rendere la manganellata moralmente scorretta nei suoi confronti: è il fatto che quel gesto lo urta, provocando dolore. Alla base c’è la capacità del cane di soffrire: questo lo rende, in questo caso, un paziente morale. Dico in questo caso perchè, come Rachels stesso nota, le caratteristiche moralmente rilevanti di un essere sono differenti, a seconda del trattamento in questione. Isolare un elefante in una gabbia, per esempio, è sbagliato perchè lede un bisogno fondamentale di socialità. Certo, produce sofferenza, ma non solo quella fisica dell’esempio della manganellata. Lo stesso isolamento potrebbe non essere moralmente scorretto per un animale solitario e non gregario, che non ha bisogno di relazioni sociali stabili e durature. Esseri viventi differenti hanno caratteristiche diverse e questo fa sì che i trattamenti giusti e sbagliati si diversifichino, a seconda dell’impatto che hanno su tali caratteristiche.

La razionalità potrebbe rientrare tra i caratteri moralmente rilevanti ma non è la sola e non può essere utilizzata come unico attributo per qualificare un essere come paziente morale. A farlo sono piuttosto una serie di caratteri quali la sensibilità, il possesso di una vita autonoma che segue una propria traiettoria, che intesse relazioni significative e vitali con l’ambiente circostante. Tutti caratteri compresi nel concetto di ‘agente semiotico’. Per questo motivo credo che quest’ultimo sia il candidato ideale per delineare l’estensione della comunità morale e una volta fatta questa operazione, consenta anche di prestare attenzione a come ciascun individuo declini il suo essere un agente semiotico (in maniera tanto singolare quanto specie-specifica), a quali caratteristiche siano moralmente rilevanti per il tipo di trattamento specifico, e permetta di comprendere come egli debba essere trattato.

Ritornando ancora al contrattualismo, ci sono altre obiezioni che possono essere mosse all’idea per cui il cardine della moralità sia la reciprocità. La prima è che non possiamo aspettare che l’altro rispetti noi per fare altrettanto: si entrerebbe in un loop in cui nessuno mai inizia a comportarsi moralmente per paura che l’altro non faccia lo stesso. Una situazione di paralisi. Questo si lega al secondo aspetto: che un essere vivente sia in grado di comprendere che le sue azioni hanno il potenziale di urtare un altro soggetto, cioè che abbia coscienza di sé come agente morale, è sufficiente affichè egli si interroghi sulla moralità delle proprie azioni e agisca di conseguenza. Non ha bisogno della conferma che anche l’altro si preoccupi in tal modo. La responsabilità è prettamente individuale: le azioni compiute da un soggetto sono particolari, uniche, avvengono in situazioni e contesti spazio-temporali irripetibili e dunque possono essere compiute solo da quel particolare soggetto. Esse, perciò, sono imputabili soltanto a lui. Ognuno, dunque, avendo compreso il potenziale del proprio agire, deve ritenersi il primo responsabile ed agire di conseguenza, indipendentemente dal fatto che gli altri soggetti facciano altrettanto.

Certo, rimane la possibilità di giudicare un altro agente morale che non si fa carico di questa responsabilità, ma non credo sia possibile trovare nell’irresponsabilità altrui una giustificazione per la propria. Per lo stesso motivo trovo insensato biasimare il leone perchè uccide una gazzella e affermare che, dal momento che gli animali non seguono principi morali, noi non dovremmo seguirne nei loro confronti.

Noi esseri umani siamo in grado di formulare principi etici? Sì.

Comprendiamo di avere certe responsabilità, obblighi e doveri? Sì.

Se si concorda sul fatto che anche gli animali possono esseri lesi dal nostro agire, non possiamo tirarci indietro dalle nostre responsabilità nei loro confronti.

Ultimo aspetto che vorrei trattare è la possibilità che gli animali facciano del male all’essere umano. È vero, è possibile, allo stesso modo in cui ci si uccide tra esseri umani stessi. È indubbio, però, che l’influenza umana su di loro è enorme e la quantità di sofferenza che l’essere umano infligge è spropositata (e anche bel celata, se si pensa alla distanza dalle nostre vite e all’impenetrabilità di laboratori, allevamenti industriali e macelli). Non li colpiamo solo direttamente (uccidendoli, testando su di loro prodotti chimici, per esempio), ma anche indirettamente, con azioni che sono in grado di impattare sulle condizioni di vita sulla Terra. Mi riferisco all’inquinamento delle acque e dei suoli, all’emissione di anidride carbonica, alla deforestazione. È necessario tenere a mente che queste non sono dinamiche ‘più grandi del singolo’, o meglio, in un certo senso lo sono perchè non è nessuna singola azione a provocarle. Però esse sono il risultato di numerosissime azioni di singoli individui. Ognuno di noi ha la possibilità di agire in senso opposto, di fare qualcosa il cui impatto non sarà di certo visibile ma se unito ad una moltitudine di altra azioni può fare la differenza. Se un insieme di azioni individuali ha questi effetti devastanti sul pianeta, solo un insieme di azioni individuali può cambiare la rotta.

La responsabilità umana è enorme, l’impatto che le azioni di ognuno di noi possono produrre ha scala grandissima. Partiamo da qua: dal ripensarci come esseri inseriti nell’ambiente tra altri esseri viventi, e ripartiamo ripensando a cosa il nostro agire produce in questo ecosistema condiviso che è la Terra.

RIFERIMENTI:

Adams Carol J., Alice Crary, Lori Gruen, The Good It Promises, the Harm It Does : Critical Essays on Effective Altruism. Oxford University Press, New York, 2023.

Allegri Francesco, Gli animali e l’etica, Mimesis, Milano, 2015.

Franklin Julian H., Animal Rights and Moral Philosophy, Columbia University Press, New York, 2005.

Kahane Howard, Contract Ethics : Evolutionary Biology and the Moral Sentiments. Lanham, Md. ; Rowman & Littlefield, 1995.

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

PER APPROFONDIRE:

Rawls John, A theory of justice. Rev. Oxford University Press, Oxford, 1999.

Regan Tom, The case for animal rights, University of California Press, Berkeley, 2014.

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