L’attivismo come filosofia postumana incarnata

By Eleonora Vecchi

26 Aprile 2024

Il corpo ha sempre giocato un ruolo centrale nei movimenti di attivismo radicale e di direct action. Gruppi come l’Animal Liberation Front, insieme a organizzazioni ambientaliste quali GreenpeaceEarthFirst! e Sea Shepherd, hanno guadagnato notorietà per le tattiche da loro usate, tra le quali l’incatenarsi agli alberi, l’interporsi tra cacciatori e prede, la liberazione di animali da gabbie e il porsi davanti ai camion e ai macchinari da costruzione.

Mossi da una profonda comprensione del valore intrinseco delle specie e degli ecosistemi che cercano di proteggere, e dal dolore per la loro morte e distruzione, gli attivisti incarnano con forza pensieri e pratiche post-umane. Essi trasformano il proprio corpo in un veicolo attraverso il quale una visione ecocentrica della realtà si afferma in un mondo dominato dalla supremazia umana, guidati da un senso di unità con la natura, di parentela con altre specie ed ecosistemi, e dalla consapevolezza che gli esseri non-umani possiedono un valore intrinseco e diritti propri. 

Attraverso la resistenza incarnata, gli attivisti scardinano gli spazi tradizionali d’oppressione e dominio per creare ambienti dove presenti e futuri post-umani possano emergere e prosperare in collettività con le altre specie. Spazialmente, generano una liminalità nei luoghi occupati, rivendicando un rapporto generativo con l’ambiente e le altre specie, oltre il modello imperante di oggettificazione e sfruttamento, distruggendo la relazione tra questi luoghi e chi li controlla. L’attivismo ecologico post-umano promuove il coinvolgimento partecipativo e la co-creazione con entità più che umane, onde resistere ai processi estrattivi sia su scala locale che globale. Gli attivisti non soltanto impiegano i loro corpi per partecipare a un processo decisionale democratico riguardante l’uso degli spazi pubblici e privatizzati, ma li utilizzano altresì per rivendicare l’importanza delle prospettive non umane. Gli attivisti creano uno spazio di manifestazione per i corpi più che umani, tipicamente esclusi dalla politica, dimenticati dalla società e senza tutele legali. Corpi invisibilizzati nel discorso pubblico diventano dunque visibili durante le proteste, attraverso i corpi degli attivisti che si fanno “dono” per una giustizia multi-specie.

Ontologicamente, gli attivisti fondano spazi per l’ascesa di comunità ecocentriche e multi-specie, anticipando modelli di apertura e dedizione all’altro non-umano. Questo tipo di attivismo rifiuta la visione gerarchica che colloca l’essere umano al centro della considerazione morale. Al contrario, esso propugna un’etica che estende la considerazione morale a tutti gli esseri, inclusi animali, piante ed ecosistemi. Gli attivisti danno priorità al benessere e alla prosperità delle entità non umane, sfidando le prospettive antropocentriche e speciste.

Gli attivisti sono consapevoli che la “natura umana” è in realtà una relazione interspecifica. L’attivismo ecologico postumano mira, dunque, a decostruire l’opposizione binaria tra umani e natura, riconoscendo che gli esseri umani sono intimamente connessi al mondo naturale e parte di esso, una specie tra molte altre. Attraverso pratiche che promuovono la resilienza ecologica e la biodiversità, gli attivisti cercano di sviluppare relazioni simbiotiche tra umani e entità più-che-umane. Questa comprensione è rafforzata dall’esperienza corporea diretta con altre specie durante le azioni di protesta. 

Durante tree sitting e altre forme di manifestazione ambientale, gli attivisti stabiliscono un legame diretto e fisico con il mondo naturale. Si fanno simbionti delle alterità oppresse e incarnazioni di volontà più-che-umane e post-umane. Scalando alberi, occupando foreste o impegnandosi in altre forme di azione diretta, essi si immergono nel paesaggio ecologico, performando un profondo senso di interconnessione con esseri e ecosistemi non umani. Chiamati dagli alberi, nel processo di rifacimento del bosco come luogo di significato, gli attivisti si trasformano in creature che vi appartengono. Sviluppano così una solidarietà somatica, reale e tangibile, con gli altri esseri viventi. I corpi degli attivisti diventano luoghi di solidarietà con entità non umane e comunità marginalizzate colpite dall’ingiustizia ambientale, trasformando l’attivismo in un potente strumento di cambiamento e connessione interspecifica. Attraverso la loro presenza fisica e le loro azioni, gli attivisti condividono il proprio corpo con coloro, umani e più che umani, i cui diritti e mezzi di sostentamento sono minacciati da industrie estrattive distruttive e progetti di sviluppo. Trascorrendo periodi prolungati negli ecosistemi, gli attivisti sviluppano un profondo apprezzamento per l’interconnessione e l’agency delle entità non umane, riconoscendole come partecipanti attivi in comunità ecologiche e umane, anziché come oggetti passivi di dominazione antropica.

Impegnando i loro corpi in queste azioni, vivono in prima persona la fragilità, condividendo le vulnerabilità di coloro che stanno proteggendo. Gli attivisti sopportano disagi fisici, esposizione agli elementi e violenza da parte delle autorità. Incarnando la vulnerabilità ecologica, sfidano le narrazioni dell’eccezionalismo umano e affermano la vulnerabilità condivisa di tutti gli esseri all’interno di ecosistemi interconnessi. Questo processo è un’esperienza di riconoscimento della nostra animalità umana e di connessione della fragilità dei nostri corpi con la fragilità degli altri esseri terrestri, sottolineando un legame profondo e indissolubile con il resto del mondo naturale. Attraverso la condivisione della fragilità, gli attivisti rivendicano la propria animalità in complicità con il mondo ecologico, mentre la resistenza condivisa con gli esseri non umani rafforza il loro senso di parentela interspecifica. Questa parentela è vista come il riconoscimento che gli esseri umani sono esseri ecologici, entità ibride che continuano a esistere e a influenzare il mondo anche dopo la morte, nel corpo condiviso del pianeta. Ciò che è importante per gli attivisti è creare legami d’amore e responsabilità attraverso le differenze tra esseri umani e altre specie.

Molti attivisti descrivono la loro esperienza di vivere tra gli alberi come un risveglio, un momento di liberazione in cui hanno percepito come le vite umane e non umane condividano modi di essere comuni nel mondo. Il rewilding del sé, che comporta il riconoscimento della nostra stessa animalità e una riconnessione con il resto del mondo naturale, introduce un senso di identità ecologica. Questo processo favorisce una visione del mondo ecocentrica e il desiderio di costruire società multispecie, poggiate su una più profonda comprensione e rispetto reciproco tra diverse forme di vita. Tale ri-concettualizzazione del sé che gli attivisti abbracciano, pone le basi per un nuovo modo di percepire e interagire con il mondo, spingendo verso la creazione di comunità in cui la convivenza tra diverse specie non è solo possibile, ma è un arricchimento reciproco e una necessità vitale per la resilienza del nostro pianeta. Un sé “rewilded” è intrinsecamente ibrido e si trova in un continuo processo di co-evoluzione con una comunità di esseri che a loro volta modellano e sono modellati dagli altri.

In sintesi, durante le proteste e le azioni come il tree sitting, i corpi degli attivisti diventano espressione di una filosofia postumana. Essi resistono attivamente per rendere visibili le istanze più che umane, coltivano solidarietà verso le entità non umane, sviluppano legami interspecifici e valorizzano la vulnerabilità condivisa. Il loro attivismo corporeo sfida le concezioni antropocentriche del mondo e promuove una visione postumana del vivere, arricchita da diverse teorie etiche non antropocentriche.

La riconnessione con la natura più che umana avviene attraverso esperienze relazionali dirette con entità non-umane, con il senso di meraviglia nel condividere il mondo con loro e il dolore che accompagna la loro distruzione. Questa esperienza trasformativa non solo modifica la percezione dell’attivista riguardo al proprio posto nel mondo, ma cerca anche di ispirare un cambiamento nella società più ampia verso un approccio più rispettoso e inclusivo nei confronti dell’ambiente e di tutte le sue componenti viventi.

Dopo l’emergere di Greta Thunberg, l’attivismo ambientale ha registrato un incredibile aumento, il più significativo dai tempi della creazione di Greenpeace e della nascita del movimento Earth First!. Movimenti come Friday for Future e Extinction Rebellion, le due principali organizzazioni attiviste in Europa, stanno portando avanti la lotta contro la devastazione ambientale, adottando però un linguaggio più antropocentrico rispetto ai movimenti degli anni ’70-’90. Sia Friday for Future che Extinction Rebellion sono principalmente concentrati sul destino dell’umanità in un mondo segnato dai cambiamenti climatici, dalla perdita di bellezza naturale e dall’inquinamento. Questa enfasi antropocentrica riflette una preoccupazione per le immediate ripercussioni dei problemi ambientali sul benessere umano, pur mantenendo l’obiettivo di sensibilizzare e mobilitare il pubblico su questioni ecologiche globali. L’alienazione dalla natura può talvolta colpire anche tra gli attivisti, che rischiano di dimenticare di vedere alleati in ciò che proteggono. La vicinanza fisica ed emotiva con la natura non-umana può svolgere un ruolo cruciale non solo durante le proteste, ma anche nella vita quotidiana degli attivisti, aiutando a intensificare le emozioni ecocentriche e a comprendere cosa significhi vivere e riconciliarsi con un mondo multispecie.

L’immersione in esperienze di rewilding del sé, come forest bathing, può contrastare quello che Robert Pyle definisce “l’estinzione dell’esperienza”, ossia la perdita di interazione diretta e significativa con la natura. Mentre proteggono il corpo di un albero con il proprio corpo, gli attivisti e le altre specie diventano compagni nella guarigione e nella resistenza. È necessario un maggior contatto diretto, più “corteccia contro la pelle” degli attivisti, per riaffermare la porosità dei corpi e il respirare congiunto delle molteplici forme di vita. Questo approccio non solo rafforza la connessione personale con le altre specie, ma propone anche un modello di resistenza e sostegno reciproco che va oltre il sempice attivismo ambientali, promuovendo un’interazione continua e profondamente trasformativa con il mondo più che-umano.

Intensificare la propria connessione emotiva con gli ecosistemi e riconciliarsi con un mondo multispecie è essenziale. Passare tempo in natura, facendo self rewilding e forest bathing è fondamentale per evitare un attivismo puramente antropocentrico, in cui la salute del pianeta e delle altre specie sia vista solo come strumentale al benessere umano.

 

Letture consigliate:

Pike M. Sarah, 2017, For the Wild. Ritual and Commitment in Radical Eco-Activism, University of California Press.

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