Agenti semiotici, pazienti morali

By Giulia Girodo

23 Ottobre 2023

La biosemiotica è un disciplina recente, sviluppatasi dagli anni ’90 del secolo scorso, anche se fa propri metodi, idee e concetti sviluppati precedentemente in altri ambiti (quello della semiotica, in particolare) e riprende intuizioni già presenti nei testi di Von Uexkull, biologo ed etologo vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900.

Se la semiotica è lo studio dei segni in particolare nell’ambito della cultura umana, la bio-semiotica estende questo studio all’ambito della vita biologica. Essa propone di pensare alla vita come a qualcosa che ha a che fare con la percezione di significati e l’azione ad essi coordinata. Il paradigma della biosemiotica si estende dalle piante agli animali, fino alle cellule e agli ecosistemi: tutto ciò che riguarda la vita, secondo la biosemiotica, può essere interpretato come qualcosa che intrattiene relazioni con l’esterno basate su scambio e interpretazione di segni.

In questa sede ci limitiamo a considerare l’interpretazione biosemiotica degli animali (zoosemiotica) e mostreremo perchè è rilevante per la nostra moralità.

Partiamo subito col dire che il paradigma biosemiotico si oppone a quello meccanicista, che vede gli animali come macchine, ‘qualcosa’ che risponde in maniera fissa e automatica agli stimoli esterni. Seppur questa interpretazione sia datata (risale a Cartesio, nel 600) e pochi ammetterebbero ad alta voce di sostenerla, è ancora più diffusa di quanto non si immagini. Ogni volta che si avanza un dubbio sulla capacità degli animali di imparare, sul loro disinteresse per le condizioni della propria vita, sulla loro incapacità di comunicare, ecco che si è Cartesiani.

L’animale biosemiotico è un agente semiotico, ossia un essere attivo in grado di percepire gli stimoli esterni, dotarli di un significato e agire in maniera coerente a questo. La novità di questo paradigma è l’interpretazione dei rapporti tra animale e ambiente esterno come rapporti basati su segni e significati. Quando percepito, uno stimolo non è mai neutro, ma riveste un significato, ossia è segno che rimanda ad altro. Una crocchetta non è ‘massa solida marrone’ ma ‘cibo’, un nido non è ‘struttura concava’ ma ‘riparo’. In accordo con questi significati, l’animale attua un comportamento coerente: mangiare la crocchetta, ripararsi nel nido.

Ora, i significati sono un’entità particolare. Ad ogni oggetto non corrisponde un solo significato, ma tanti quanti sono gli agenti semiotici che lo percepiscono. Un nido è ‘riparo’ ma è anche ‘luogo da saccheggiare per prendere cibo’. Ma, complicazione su complicazione, uno stesso oggetto o situazione esterna può avere diversi significati anche per lo stesso soggetto. Le condizioni interne di un organismo, ossia stato emotivo, bisogni e necessità contingenti, determinano il modo in cui esso percepisce l’esterno e i significati attribuiti. Sarà capitato a tutti di sedersi su una sedia per mangiare al tavolo o usarla come sgabello per arrivare allo sportello più alto della cucina: necessità differenti fanno sì che la stessa situazione sia dotata di diversi significati. Questo avviene anche per gli animali, come per il paguro che si ciba dell’anemone quando ha fame o la usa come riparo quando si sente in pericolo. Questa moltiplicazioni di possibili sensi significa che essi non sono immanenti agli oggetti. Non sono, però, nemmeno una libera invenzione degli animali: la realtà non si lascia plasmare ad libitum, ma pone limiti e freni alle possibili interpretazioni. Una crocchetta può essere cibo, ma non riparo. I significati, dunque, sono un’entità ibrida che sorge all’incrocio tra il soggetto, il suo stato interno e la situazione esterna dove quest’ultima suggerisce un range di possibili letture.

Tutto ciò implica il fatto che non esista un significato assolutamente vero e uno assolutamente falso: certo, è possibile che un organismo si bagli totalmente nell’interpretazione (pensiamo alle illusioni, per esempio), ma non è possibile affermare che esista uno e un solo modo di interpretare il reale. Ce ne sono tanti quanti organismi e ogni significato è vero per l’organismo che lo attribuisce.

Come si capisce, il paradigma biosemiotico non vede nulla di fisso e automatico nel comportamento animale come invece voleva il meccanicismo: ogni essere vivente è attivo nell’interpretare la realtà, libero di dare significati nei limiti posti dalla realtà stessa e in grado di agire sulla base della propria interpretazione. Per riassumere si potrebbe dire che l’agente semiotico è colui che, interpretando i segni esterni, utilizza questi come informazioni per modellare il proprio comportamento.

Passiamo ora all’aspetto della moralità che credo fortemente necessiti di una revisione alla luce della teoria biosemiotica. In particolare sono convinta del legame profondo tra i concetti di agente semiotico e paziente morale.

Per paziente morale si intende colui che è beneficiario di un trattamento morale, cioè colui verso il quale si dirigono le preoccupazioni morali. L’agente morale, invece, è colui che si pone il problema della moralità e agisce in base ai suoi principi. Non è questa la sede per discutere della possibilità (o necessità?) che ogni animale sia anche agente morale, ma è un argomento interessante di cui rimando la discussione al prossimo articolo.

Noi siamo agenti morali e ancora oggi ci preoccupiamo davvero troppo poco degli altri animali. Sono convinta che il paradigma biosemiotico possa rispondere in maniera esaustiva al domande come: perchè dovremmo estendere la nostra moralità a tutti gli animali? Perchè ci dovrebbe importare di loro? Perchè dovremmo farne dei pazienti morali? Le risposte stanno nel concetto di agente semiotico.

Come abbiamo visto, l’agente semiotico è un organismo in grado di percepire e dare autonomamente un senso a ciò che avverte dell’esterno. Anche le azioni umane incrociano gli organi percettivi degli altri organismi, che dunque le interpretano e dotano di un significato. Come già detto sopra, i significati non sono univoci, ma ne esistono tanti quanti sono gli agenti semiotici. Quando ci mettiamo in relazione con un essere vivente le nostre azioni possono essere percepite e interpretate in modi differenti dal nostro, in modi che noi, in quanto esseri umani, non possiamo né determinare né prevedere appieno perchè sono relativi all’altro soggetto, ai suoi organi percettivi e stati interni.

Come abbiamo già detto, non esiste un significato vero in assoluto, perciò non è possibile farne una scala gerarchica: il sistema semiotico umano è uno dei tanti possibili, non il migliore e non quello più ‘vero’, ma è uno dei tanti possibili, tutti differenti gli uni dagli altri e tutti posti sullo stesso piano valoriale. Questo perchè ogni sistema semiotico è vero relativamente al soggetto che lo ‘abita’. Questo significa che non possiamo appellarci ad una qualche ‘supremazia’ per schiacciare sistemi semiotici non umani.

Ogni animale, in quanto agente semiotico, è una prima persona percettiva che non recepisce passivamente gli stimoli esterni ma attivamente li interpreta e utilizza per agire: è interessato agli stimoli e sensibile nei loro confronti. Le nostre azioni nei confronti di un animale, dunque, lo concernono, vengono recepite e utilizzate da lui come segni e informazioni per l’azione: hanno, cioè, un impatto sulla conduzione della sua esistenza.

Le nostre azioni, però, non impattano solo direttamente sugli animali ma possono anche urtali indirettamente andando a ledere le relazioni semiotiche significative che intrattengono con l’ambiente circostante. Abbattendo una foresta, per esempio, potremmo aver cura di non uccidere attivamente gli animali che vi abitano, ma questo non è sufficiente: la foresta è significativa per questi esseri. Abbattendola stiamo facendo venir meno una relazione importante per loro. Il nostri interesse deve prevalere? Abbattere foreste è un bisogno vitale per l’essere umano? No. Se facciamo nostro il paradigma biosemiotico dobbiamo riconoscere che foresta non è solo ‘legna su cui guadagnare’ ma anche ‘casa’, ‘protezione’, ‘luogo di caccia’ e non siamo giustificati a far prevalere il nostro interesse (non vitale) su altri (ben più vitali) di altri soggetti. Preservare un organismo, insomma, significa preservarne la vita e anche le relazioni significative e vitali che intrattiene con l’esterno.

In conclusione, in quanto esseri umani dobbiamo riconoscere di non essere gli unici agenti semiotici, che i nostri significati, le nostre relazioni con l’esterno non sono né le uniche né quelle di maggior valore. Dobbiamo fare un passo indietro e chiederci giorno dopo giorno se con le nostre azioni stiamo urtando qualcuno che ha il nostro stesso diritto ad essere.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Agency in Non-human Organisms, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 95-122, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, p. 96.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Conceptualizing Agency, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 153-188, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, pp. 163-164.

Tønnessen Morten, Umwelt Transitions: Uexküll and Environmental Change, in “Biosemiotics”, Vol. 2, n° 1, 2009, pp. 47-64, DOI 10.1007/s12304-008-9036-y, consultato in data 11/11/2022.

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