Dr. Pascolini, il suo ultimo lavoro, Le sepolture animali nelle necropoli longobarde. Offerte Funebri e Riti Sacrificali (Daidalos, Umbertide 2023), indaga gli aspetti sociali, culturali e religiosi delle sepolture animali (equine, e più limitatamente canine) durante il primo trentennio di presenza longobarda in Italia (568-598 d.C.). Per introdurci, iniziamo dal rito funebre, che lei descrive come una cerimonia pubblica attraversata da forti motivi identitari, nonché una vivace occasione di condivisione orale, in cui il gruppo parentale poteva legittimamente raccogliere lo status sociale del defunto di fronte al resto della comunità. Su due aspetti ci vorremmo soffermare: la funzione di tutela della memoria collettiva e del sapere comune assunta dalla necropoli in un momento di necessaria rielaborazione culturale, quale doveva essere stata la migrazione dalle aree pannoniche, e la scarsa attenzione che il rito, secondo la sua analisi, sembra riservare alla prosecuzione ultraterrena della vita dei defunti.
Nella società longobarda, la necropoli costituiva un importante punto di contatto tra il mondo dei vivi e la comunità dei morti, due realtà legate tra loro da un rapporto di omologia. La presenza di una ritualità associata alla deposizione di resti umani in spazi socialmente definiti e riconosciuti pare costituire un elemento fondamentale nella creazione di una dimensione sociale della memoria e nel conseguente sviluppo di una qualche forma di culto degli antenati. Inoltre, la necessità di riorganizzare socialmente ed economicamente la comunità in seguito ad un evento di enorme portata come il processo migratorio, aveva generato una certa particolarità nella distribuzione spaziale delle tombe, volta ad enfatizzare i vincoli di parentela e di discendenza esistenti tra i defunti. Il gruppo umano longobardo appare molto poco interessato all’aldilà. Le stesse caratteristiche denunciate dal cerimoniale funebre mostrano infatti come l’attenzione fosse totalmente rivolta verso una dimensione marcatamente terrena, rappresentata dall’immagine che la comunità presente alle esequie recepiva del defunto. Il ricordo che i contemporanei prima e i posteri poi conservavano delle azioni umane costituiva l’unico aspetto a suscitare interesse. Proprio alla tenuta di questo ricordo sul sistema percettivo e cognitivo dei partecipanti alla cerimonia, favorita dalla dimensione sensoriale ed emozionale espressa durante l’attuazione del rito, era affidata la sola forma possibile di immortalità.
Lo studio riguarda nove sepolture in cinque necropoli, distribuite tra l’Italia settentrionale e l’Italia centrale. Dall’analisi emergono alcune ricorrenze: quando la sepoltura animale appare associata ad un’inumazione umana, la carcassa risulta intera e interpretabile come parte del corredo del defunto; quando al contrario non è possibile identificare una correlazione, i resti scheletrici appaiono incompleti, acefali. Tali ritrovamenti possono essere ricondotti ad una pratica di sacrificio rituale. Quali sono le ragioni sociali e culturali che sostengono un simile rito, e come doveva strutturarsi il suo svolgimento, secondo la sua ricostruzione?
Le caratteristiche mostrate dalle fosse animali associate ad una specifica sepoltura umana, sia nella forma contestuale sia nella modalità separata, consentono di considerare i depositi in questione quali parte integrante del corredo funerario attribuito al defunto. Il trattamento riservato agli animali doveva rientrare a pieno titolo all’interno della pratica funeraria organizzata per il morto. Ad essere abbattuti nell’ambito del rituale potevano essere cavalli e cani, anche in combinazione tra di loro. L’atto doveva avvenire verosimilmente nelle immediate vicinanze della fossa, anche per ovviare alle difficoltà logistiche di trasportare per lunghi tratti una carcassa che poteva mostrare anche grandi dimensioni. L’uccisione era praticata secondo modalità ben precise, che mostrano una certa attenzione per l’animale, di cui si cercavano di preservare l’integrità corporea e le proprietà fisiche. Alcune caratteristiche mostrate dalle sepolture animali prive di una associazione chiara ed evidente con una specifica inumazione umana, consentono di considerare i rinvenimenti in questione quali esito ultimo di un sacrificio rituale. Più aspetti consentono di riconoscere nel taglio della testa dell’animale, una delle azioni in cui doveva articolarsi un complesso rito sacrificale compiuto in onore della divinità. La decapitazione comportava la completa distruzione dell’esemplare, qualificando il gesto come un atto sacrificale. Siamo di fronte ad un cerimoniale a sfondo religioso dalla forte valenza simbolica, chiaramente alternativo alla ritualità funeraria organizzata in onore di un membro della élite guerriera. Oltre che la decapitazione dell’animale e la probabile combustione di alcune parti molli dell’equino, il sacrificio poteva prevedere l’esposizione rituale del cranio del cavallo, magari collocato sulla sommità di una picca. Solo dopo un periodo di tempo più o meno lungo, il cranio poteva essere rimosso e deposto in una sepoltura dedicata.
Una sepoltura in particolare mostra una peculiarità. Oltre al cranio, lo scheletro del cavallo manca anche della parte terminale degli arti, dello sterno e delle vertebre caudali. Al pari delle altre inumazioni, anche l’asportazione di queste parti dipende da un’attività intenzionale. La sua ipotesi è che tali caratteristiche rimandino a qualcosa di simile ad una pratica rituale nota come “Head and Hoof”, che prevede l’esposizione per un tempo più o meno lungo della pelle dell’animale montata su un’impalcatura di legno. Come si può collocare l’origine di questa pratica, e quali significati doveva riconoscere in essa la comunità che la attuava?
Il rituale noto come Head and Hoof risulta molto diffuso in diversi periodi cronologici e in differenti ambiti culturali. La deposizione di ossa selezionate di equino è particolarmente attestata soprattutto nella zona caucasica durante la prima metà del secolo V, ma appare attestata, seppur in modo sporadico, anche in territorio europeo fino alla fine del secolo VII. Il sacrificio del cavallo sembra riflettere una religiosità strettamente legata ad una dimensione tribale e pagana, che ancora alla fine del secolo VI doveva essere molto sentita tra la popolazione longobarda. E’ parso possibile riconoscere in Freyr la divinità destinataria del rituale. Appartenente alla stirpe dei Vani, patroni della fecondità, della pace, della ricchezza e del piacere, il dio Freyr doveva rivestire un ruolo centrale nel pantheon longobardo. L’abbattimento di un equino, animale sacro alla divinità, possono essere considerati pertanto parte di un rituale strettamente legato al concetto di procreazione e di fortuna. Un gesto benaugurale perla collettività, con una chiara funzione apotropaica.
Già numerosi studi, non esclusivamente archeologici, hanno evidenziato il legame che sussiste nelle società tribali tra l’attività venatoria e l’attività militare. Questo rapporto sembra essere largamente presente anche nella comunità longobarda della fine del VI secolo. Lo troviamo infatti sia al livello del corredo, in cui cavalli e cani qualificano il defunto come cacciatore-guerriero, sia al livello dell’offerta rituale, a partire almeno dalla diffusione di una religiosità in cui gli apporti delle culture venatorie e pastorali occupano una parte decisamente più consistente rispetto a quelli provenienti dalle culture agricole. In che misura, dunque, la caccia e la guerra appaiono correlate nella società longobarda? In che modo la ritualità esprime tale rapporto?
Guerra e caccia. Nelle culture barbariche queste attività costituivano aspetti di una stessa morale, strettamente legati all’esercizio del potere. In una società semi nomade come fu quella longobarda fino alla fine del secolo VI, tali attività rappresentavano una delle principali occupazioni della élite. La caccia, soprattutto di animali feroci, era sentita come somigliante alla guerra, vero e proprio addestramento ad essa. Le pratiche e le tecniche delle due occupazioni risultavano tra loro assai simili. In una società altamente instabile e competitiva come quella longobarda della seconda metà del secolo VI, dove lo status sociale della persona deceduta poteva essere mantenuto dal rispettivo gruppo parentale unicamente tramite l’ostentazione della ricchezza, la sepoltura di animali nell’ambito del cerimoniale funebre doveva qualificare pertanto il defunto come un personaggio di grande rilievo.
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