Il mimetismo è un fenomeno naturale la cui complessità e varietà sono direttamente proporzionali a fascino e stupore suscitati. La prima immagine che comunemente gli si associa è il camaleonte che cambia il colore della propria pelle riprendendo in modo talmente accurato quello dell’ambiente circostante da risultare invisibile. Questo è un esempio di ‘mimetismo criptico’, solo una delle tante tipologie con cui si è tentato di categorizzare il fenomeno. Accanto a questo ricordo solo quello batesiano in cui una specie imita forme, colori, comportamenti o suoni di una specie differente, più temuta dai propri predatori, e quello peckhamiano quando avviene l’opposto, quindi una specie nociva o pericolosa ne imita una meno aggressiva per far avvicinare le prede [per approfondimento si veda Maran 2017, pp. 16-18].
Gli studi che hanno cercato di classificare il mimetismo sono tanti, variegati e i risultati poco concordanti perchè il fenomeno è talmente complesso, ricco e variegato da rendere ogni tentativo classificatorio insufficiente. Basti pensare a quante sotto-categorie del mimetismo criptico sono pensabili: ci sono animali che nascono con un pelo adatto al camuffamento, altri che cambiano il colore lungo la vita come alcuni granchi, altri in grado di cambiarlo repentinamente come il camaleonte o ancora altri che usano materiali naturali per nascondersi, scegliendo quelli più adeguati e funzionali in base al contesto [Maran 2017, p. 75-76].
Accanto a questo si aggiunge la complessità dovuta al punto di vista con cui lo studioso che intende classificare il fenomeno si approccia ad esso: può essere interessante suddividerlo a seconda della tecnica utilizzata dall’animale (come fa la distinzione tra batesiano e peckhamiano), o della tipologia di segnali utilizzati (distinguendo quelli che coinvolgono stimoli visivi, uditivi o chimici), o della funzione che ha per colui che mette all’opera la strategia mimetica. Non dimentichiamoci, infatti, che il mimetismo serve a sfuggire dai predatori non facendosi riconoscere o scongiurandone gli attacchi (per esempio, il mimetismo criptico impedisce il riconoscimento, mentre colori sgargianti o pattern del pelo striati interrompono e disturbano l’immagine visiva dei predatori disorientandoli [Stevens, Merilaita 2009, p. 425]), ma può essere anche rivolto ai conspecifici e avere funzione sociale e comunicativa. Il mimetismo, poi, può essere studiato come fenomeno filogenetico ed evolutivo, concentrandosi sugli aspetti genetici ed ereditari, o ontogenetico e coinvolto in processi di apprendimento, concentrandosi questa volta sulla performance del singolo.
La biosemiotica offre una delle tante prospettive possibili ed è caratterizzata dal suo intendere il mimetismo come un processo comunicativo che coinvolge mimo, modello imitato e ricevete (il destinatario della strategia). È comunicativo perchè in esso avviene uno scambio di informazioni e segnali tra i partecipanti: il mimo invia un segnale al ricevente, il quale lo interpreta nello stesso modo con cui lo interpreterebbe se provenisse dal modello, scambiando, così, il mimo per quest’ultimo [Maran 2017, p. 2]. Secondo questa prospettiva, infatti, il mimetismo non è tanto una somiglianza tra organismi, ma tra messaggi [Maran 2017, p. 9]: il mimo imita una caratteristica del modello sfruttando il significato che esso ha per il referente e impedendo a quest’ultimo di percepire il mimo per quello che è. In natura, infatti, sono rari i casi in cui una specie imita perfettamente e completamente un’altra specie: la maggior parte delle strategie mimetiche riprendono solo alcuni segnali, quelli necessari e sufficienti a ingannare al predatore.
Ma facciamo un passo indietro: quando si pensa al mimetismo, la prima cosa ad essere evidente sono le forme esterne: come afferma Portmann nel suo brillante testo La forma degli animali, ciò che conta nel mimetismo è l’apparenza. Ricordare una foglia, avere il mantello simile allo sfondo o un pattern cromatico alare identico al tronco degli alberi, sono tutti escamotage che coinvolgono la superficie esterna. Portmann le chiama ‘strutture ottiche’ intendendo sottolineare il fatto che sono strutture fatte per essere guardate, che hanno senso in relazione ad un occhio che le osserva [Portmann 2013, pp.112-114]. La maggior parte di tali strutture sono specie-specifiche, non sono scelte dal soggetto ma ereditate e legate al patrimonio genetico.
Ma la forma non è tutto: la cosa più meravigliosa e affascinante del mimetismo è che esso non funzionerebbe se la forma non fosse supportata da un comportamento adatto in un contesto adatto [Portmann 2013, p. 121]. L’insetto stecco riesce a mimetizzarsi e passare inosservato non solo perchè la sua forma imita quella di un ramoscello, ma anche perchè assume una posizione coerente in un ambiente ricco di ramoscelli. La mantide
Hymenopus coronatusè, con le tibie che ricordano petali e un colore tra il bianco e il rosa, risulta indistinguibile dai fiori delle orchidee solo se rimane immobile tra essi assumendo una posizione corporea specifica [Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Hymenopus_coronatus].
Il mimetismo è anche performance e in essa l’apparenza visibile non è tutto, anzi! Il mimetismo è per lo più multisensoriale, ossia può sfruttare sguardo, odorato o udito dei predatori cui intende sfuggire. Il caso forse più estremo e impressionante è quello dell’opossum: il piccolo mammifero si finge morto sdraiandosi a pancia all’aria, spalancando la bocca e facendo uscire la lingua. Questa si colora di blu e il corpo inizia ad emettere un sentore di morte e ad espellere feci e urine. Il battito del cuore rallenta, seguito dalla respirazione [Monsó 2022, p. 174]. Impressionante finezza, vero?
Ma sono comportamenti scelti, appresi e intenzionali? O innati e istintivi? L’opossum sa che atteggiandosi a quel modo sembra morto? Difficile dirlo, ma evidentemente deve sapere almeno che la strategia funziona: lungo la sua vita ogni individuo deve aver fatto esperienza di un conspecifico scampato in questo modo ad un’aggressione e deve aver testato la funzionalità della strategia in un momento di pericolo sulla sua stessa pelle. Forse l’opossum non sa che così sembra morto, ma a saperlo è di certo il predatore che, disgustato, rinuncia al banchetto. Se la tecnica funziona è perchè quest’ultimo sa distinguere una preda morta (cattiva e nociva se mangiata) da una viva [Monsó 2022, pp. 230-232].
Questo per dire che forse il mimo potrebbe mimetizzarsi anche ‘inconsapevolmente’, potrebbe non sapere che forma assume e a cosa somiglia, ma solo che la tecnica funziona. Ma, come la biosemiotica sottolinea, è l’occhio del ricevente ad essere centrale nel sistema semiotico: questo è da ingannare, questo è il destinatario della performance. Perchè la strategia mimetica funzioni poco importa che i segnali coinvolti siano compresi e interpretati dal mimo: importa solo che vengano percepiti e significhino qualcosa per il ricevente. La strategia mimetica è fatta per lui e funziona sfruttando i suoi concetti, scelte e sensi. Non è importante che la preda riconosca la propria apparenza e la interpreti allo stesso modo del predatore: è solo l’apparato percettivo di quest’ultimo ad essere importante per la riuscita della strategia [Maran 2011, pp.170-175].
Il mimetismo è benefico per il mimo oppure no a seconda dell’interpretazione che ne fa il ricevente e del suo conseguente comportamento ed è quindi il ricevente stesso a determinare le dinamiche del sistema mimetico: sono i suoi apparati, preferenze, paure e categorie a determinare cosa e in che modo la preda imiterà [Maran 2017, p. 29]. Il caso dei polpi aiuta a chiarire questi punti: il polpo sa cambiare colore molto velocemente per mimetizzarsi con il contesto ma lui, con una sola classe di fotorecettori, ha una vista monocromatica cui sfugge la complessità di sfumature colorate che può assumere [Yong 2023, pp 118-119]. Compie un mimetismo criptico ma di fatto lui non può vederlo e apprezzarlo: questo per dire che la strategia è fatta non per il suo occhio, ma per quello del predatore. Evidentemente tale strategia non ha un valore sociale. Il polpo, poi, sa sfruttare i suoi tentacoli per imitare altri predatori e in questo caso sa assumere forme e sembianze differenti a seconda della specie che vuole imitare: la scelta è fatta in base a quale predatore vuol allontanare e spaventare con la sua tecnica. Ecco, in questo caso è chiaro che è il ricevente a decidere le dinamiche della strategia imitativa [Maran 2017, p. 73].
L’enfasi che l’approccio biosemiotico pone sul ricevente getta nuova luce sul fenomeno, considerandolo da una prospettiva differente: ciò che conta sono i concetti, i sensi e le categorie del destinatario che fanno sì che per lui un certo segnale del mimo significhi qualcosa. Cosa deve significare? Dipende. Il mimetismo criptico funziona sfruttando l’incapacità del predatore di distinguere il contorno dell’animale dallo sfondo, l’opossum sfrutta (tra le altre cose) l’odore che il predatore associa alle carcasse. È possibile comprendere una strategia mimetica, allora, ‘osservandola’ con i sensi del ricevente, cogliendola alla luce della struttura del suo Umwelt. È necessario comprendere come il destinatario del mimetismo percepisce, che significato hanno per lui gli stimoli esterni, come li interpreta, cosa non riesce a distinguere e cosa lo disorienta: solo così si può capire a pieno perchè una strategia sia performata in certo modo e abbia certe caratteristiche.
Per questi motivi il mimetismo è molto diverso da un generico ‘nascondersi al mondo’, come afferma Marchesini: nulla è generico, tutto è perfettamente calibrato sull’ambiente circostante e sullo specifico ricevente. La tecnica dell’insetto di imitare un ramoscello funziona solo in un contesto adeguato, così come imitare il suono di una specie pericolosa funziona solo in relazione ad un predatore in grado di udire quel suono e di essere spaventato dall’animale imitato. Le strategie mimetiche sono un’opera di immersione nel contesto e somatizzazione delle relazioni di significato e interpretazione che legano tra loro gli organismi in un ambiente [Marchesini 2018, p. 88].
Proprio perchè il mimetismo non è generico ma fatto per uno specifico ricevente, per comprenderlo è necessaria un’opera di decentramento che prenda atto del fatto che l’essere umano è un terzo osservatore della strategia. Non si può comprendere il mimetismo guardando ad esso solo con occhi umani se non è fatto per ingannare i nostri occhi [Stevens, Merilaita 2009]. Non solo non siamo in grado di capire perchè alcune strategie funzionano (ciò che a noi pare perfettamente distinguibile, non lo è per un animale con sistemai percettivi differenti), ma alcune strategie possono completamente sfuggirci, come quelle che sfruttano i raggi UV per esempio. L’occhio dell’uomo non è l’unico ad osservare i fenomeni, non è l’unico a cogliere in essi significati. E così questo ci insegna che in natura probabilmente solo più le cose che ci sfuggono rispetto a quelle che percepiamo e che quelle che percepiamo hanno migliaia di altri significati per migliaia di altri esseri che li percepiscono.
Queste riflessioni ci conducono al cuore del motivo per cui ho deciso di indagare il mimetismo e al perchè è coerente con questo blog: esso rappresenta un fenomeno importante attraverso cui indagare in che modo in natura si tiene conto del fatto di essere osservati. Mimetismo è tener conto di avere un’apparenza esterna, percepita ed interpretata in un certo modo, mimetismo è prendere in considerazione l’occhio dell’altro e il come l’altro percepisce, è modellare la propria apparenza per indurre nel predatore un’interpretazione specifica che vada a favore della preda. Il mimetismo porta con sé l’occhio dell’altro: è sapere di essere visti, di avere un’apparenza che viene percepita in un certo modo e che questa apparenza determina certe azioni dell’altro. Il mimetismo è comprensibile solo comprendendo i sensi dell’organismo per cui è fatto e a cui è rivolto.
Ritengo insondabile la questione della consapevolezza e autonoma scelta del mimo nella sua strategia. Ma invece di tentare di ridurre tutto a modelli appresi, a istinti o condizionamento genetico potremmo lasciare loro il beneficio del dubbio. Se gli uomini sono in grado di consapevolezza e autonomia non vedo perchè non potrebbero farlo anche gli altri animali: partire da questo presupposto ci aiuta a sprecare meno energie nel cercare a tutti i costi un modello che spieghi il fenomeno senza parlare di soggettività e coscienza. Concedere il beneficio del dubbio significa permettere a noi stessi di rimanere affascinati di fronte al mondo e alle sue stranezze, ci permettere di abbassare le nostre pretese di onniscienza, ridurre la nostra presunzione: non possiamo spiegare tutto, non siamo gli unici sguardi interpretanti gettati sul mondo, il mondo non è fatto esclusivamente per i nostri occhi.
Gli animali sanno sorprenderci, lasciamo che continuino a farlo.
RIFERIMENTI:
“Hymenopus coronatus” in Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Hymenopus_coronatus.
Maran Timo, Mimicry and Meaning: Structure and Semiotics of Biological Mimicry, Springer International Publishing, 2017, https://doi.org/10.1007/978-3-319-50317-2.
Maran Timo, Structure and semiosis in Biological Mimicry, in Towards a Semiotic Biology : Life Is the Action of Signs, a cura di Kull Kalevi e Claus Emmeche, Imperial college press, London, 2011, pp. 167-178.
Marchesini Roberto, Geometrie esistenziali : le diverse abilità nel mondo animale, Apeiron, Bologna, 2018.
Monsó Susana, L’opossum di Schrödinger: come vivono e percepiscono la morte gli animali, Ponte alle grazie, Milano, 2022.
Portmann Adolf, La forma degli animali : studi sul significato dell’apparenza fenomenica degli animali, Cortina, Milano, 2013.
Stevens Martin, Merilaita Sami, Introduction: Animal Camouflage: Current Issues and New Perspectives, in “Philosophical Transactions: Biological Sciences”, Vol. 364, No. 1516, 2009, pp. 423-427, https://www.jstor.org/stable/40485806 .
Yong Ed, Un mondo immenso : come i sensi degli animali rivelano i regni nascosti intorno a noi, La nave di Teseo, Milano, 2023.