Luigi Pirandello scrisse il saggio L’Umorismo, nel quale cerca di dare una definizione del concetto di umorismo, sostenendo che esso non sia una semplice imitazione del mondo, ma abbia come campo d’applicazione l’uomo il quale, per affermare la propria personalità, finisce per separarsi dal resto della vita e diventa forma individuale, che possiede una volontà in atto.

Questo discorso si pone in antitesi con il suo romanzo i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nel quale racconta la vicenda di un uomo che si definisce «Una mano che gira una manovella», perché totalmente al servizio della macchina da presa.

Vladimir Majakovskij nel capitolo Il cinematografo distrugge il teatro, contenuto nel saggio Cinema e cinema, sostiene che il cinematografo dal punto di vista estetico sia il regno della dialettica ambigua tra essere e apparire, come possiamo vedere da queste parole:

Mi trovo nella necessità di rispondere oggi a un nuovo interrogativo postomi: posso io, artista, salutare l’avvento della macchina inanimata là dove ancora ieri si agitava la “trepida” mano del pittore?

Esso presuppone, da parte del pubblico, l’accettazione di un inganno, ovvero la falsità della presenza data dall’impressione di realtà e la falsità della rappresentazione. Il cinematografo può essere considerato Uno (nella proiezione), Nessuno (nell’immaterialità) e Centomila (nel moltiplicarsi delle copie in cui il film è uguale a se stesso). La metafora riporta sempre a Pirandello, il quale sostiene che lo schermo del cinema rappresenti la condanna dell’arte. L’autore agrigentino condanna il cinema, perché priva gli attori del contatto diretto con il pubblico: la macchina irrigidisce l’arte e così l’individuo si sdoppia entrando in conflitto tra la vita e la forma, come se fosse un’ombra a servizio della macchina da presa. L’ombra è un elemento proposto dallo stesso autore nel suo celebre romanzo Il fu Mattia Pascal, nel quale il protagonista si definiva «L’ombra di un morto», ed è la stessa sorte che ricade sull’uomo a servizio della tecnologia: gli oggetti sono diventati idoli tirannici che assoggettano l’essere umano.

La vendetta di Serafino Gubbio è quella di riportare le sue impressioni in quaderni, utilizzando la scrittura come risposta a un mondo che diventa sempre più meccanico; questa disumanizzazione viene esplicitata nel finale del romanzo, nel quale Serafino, davanti a una scena drammatica, continua a girare impassibilmente la manovella della macchina da presa, ma perde l’uso della parola. La perdita della favella è emblematica per rappresentare il declassamento dell’essere umano.

Agli albori del Novecento, Luigi Pirandello, postula l’avvento del consumismo e della perdita di quel «po’ di cuore e di mente», privilegio dell’essere umano, dato in pasto alle macchine.

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