Alle origini della domesticazione

By Eleonora Adorni

2 Dicembre 2016

La domesticazione rappresenta uno dei fondamenti della storia dell’umanità, un cammino troppo spesso rappresentato come evento mitico realizzato in modo autarchico, nell’iconografia autocelebrativa di un uomo che si è fatto da sé – un’immagine oggi molto in uso – lottando contro una natura ostile.

In realtà questa lettura è scorretta, soprattutto se consideriamo che, dalle ultime ricerche paleontologiche e di biologia molecolare, si è dovuto retrodatare la domesticazione del cane oltre il fatidico limite dei 50.000 anni fa. Nelle brume del Paleolitico, l’uomo, ancora raccoglitore nomade, era già accompagnato dal cane nelle sue migrazioni, e questo ben 40.000 anni prima della rivoluzione del Neolitico: un dato che ci fa comprendere come si debba parlare di un processo reciproco che ha trasformato la nostra specie, oltre ad aver estratto il cane dal complesso genotipo del lupo. Ovviamente, considerando l’epoca in cui è avvenuto questo processo, è da escludere un vero e proprio progetto di controllo ed è verosimile che più che di un evento di cattività debba trattarsi di un processo di avvicinamento.

Ominidi e lupi condividevano lo stesso ambiente, avevano la stessa collocazione ecologica, assomigliavano nell’organizzazione sociale: tutti questi requisiti inevitabilmente hanno facilitato gli incontri e le sovrapposizioni, indubbiamente anche situazioni di scontro, ma alla fine dobbiamo pensare che prima della domesticazione ci sia stata una lunga convivenza. Una frequentazione che, se da una parte ha avvicinato il lupo alla consuetudine umana, creando le premesse per la domesticazione, come giustamente riscontrato da Raymond Coppinger, dall’altra ha modificato profondamente gli usi e i costumi dei nostri progenitori.

Questo è forse l’aspetto più interessante messo in luce dalla zooantropologia, disciplina che studia i prestiti degli etrospecifici nella costruzione della dimensione antropologica. L’identità umana non è un’entità autarchica e non è possibile pensare ai predicati che la caratterizzano – la musica, la danza, la moda, la tecnologia – come qualità autofondate.

Già Democrito aveva sottolineato che l’uomo aveva imparato gran parte delle sue arti osservando gli animali e imitandone le prestazioni. Tra l’altro tutte le mitologie parlano di uomini adottati da lupe, da cui possiamo ricavare che anche la licantropia – ovvero il meticciamento con il lupo – abbia svolto un ruolo antropologico non secondario in questa apertura dell’orizzonte umano. Di certo l’adozione di un cucciolo di lupo, un evento verificatosi più volte e in aree geografiche differenti, come già aveva intuito Konrad Lorenz, ha significato indubbiamente un salto di qualità.

Con l’ingresso fattivo del lupo nel gruppo umano i bambini imparano stili comportamentali non umani dando vita a un’ibridazione molto più profonda e articolata. La domanda che ci potremmo porre riguarda il perché sia avvenuta questa adozione. Studiando le prassi di allevamento ancora in voga presso alcune culture, come quella Papua o Nunga, osserviamo ancora pratiche come il maternaggio, l’allattamento al seno di cuccioli, o lo svezzamento attraverso il passaggio di cibo da bocca a bocca, il che ci porta a leggere l’adozione come evento legato alle cure parentali.

Nel famoso saggio In the company of animals, lo studioso James Serpell fa notare come in tutte le popolazioni umane siano presenti animali cosiddetti da compagnia e come il tratto che caratterizza questi rapporti sia proprio la tendenza ad accudire e a prendersi cura dei pet, al punto tale che l’etologo statunitense arriva a ipotizzare una sorta di parassitismo parentela. Gli animali domestici avrebbero pertanto utilizzato la stessa strategia del cuculo? Il paragone non sembra reggere perché mentre il cuculo ha affinato una sua strategia riproduttiva, specifica sotto il profilo dell’adattamento, nel caso degli animali adottati l’uomo sembra aver tentato di domesticare qualunque tipo di animale. Così, se è vero che non tutti gli animali sono stati domesticati – come la gazzella o il ghepardo -, il limite va ascritto, come giustamente rilevato dal fisiologo Jared Diamond, ad alcuni caratteri non direttamente legati con l’adozione, come la docilità o la riproduzione controllata.

Non vi è dubbio che, se un primo movens dev’essere individuato, questo vada ricercato non negli addomesticandi ma nell’addomesticatore, ovvero nelle caratteristiche etografiche della nostra specie. Già Konrad Lorenz aveva richiamato l’attenzione verso una serie di caratteri pedomorfici – tipici delle forme giovanili – comuni in tutti i mammiferi, come la forma sferica della testa, gli occhi molto grandi e lucidi, il muso schiacciato, le zampette corte, tanto da risultare una forma di linguaggio universale dei cuccioli. Le forme giovanili sanno suscitare comportamenti parentali, sono una sorta di esperanto “et-epimeletico” – termine etologico che in pratica significa “capace di muovere un comportamento di cura”.

Ma è altrettanto vero che tale evocazione sarà più forte se dall’altra parte c’è qualcuno fortemente sensibile a tale richiamo, ossia con una forte motivazione epimeletica – dal greco epimeléomai che significa “prendersi cura”. In tal senso si deve concordare con Martin Heidegger quando afferma che “l’uomo è figlio della cura”; l’etologia sembra dargli ragione sottolineando la forte sensibilità dell’uomo verso il richiamo et-epimeletico. La forma giovanile ha un indubbio appeal nell’essere umano al punto tale che persino i disegnatori disneyani si trovarono a dover ritoccare in senso pedomorfico Micky Mouse e Donald Duck per aumentarne il fascino.

Anche le macchine dai contorni rotondeggianti, come la Cinquecento e il maggiolone, hanno dimostrato di esercitare un appeal superiore. La tendenza epimeletica dell’essere umano andrebbe ascritta al forte bisogno di cure parentali del cucciolo di Homo sapiens che, a differenza dei cugini scimpanzé, bonobo, gorilla e orango, alla nascita presenta un’accesa immaturità di sviluppo – ossa craniche non saldate, volume encefalico di un quinto rispetto all’adulto – che lo rende assai inetto e quindi bisognoso di cure parentali.

Il neonato umano non solo non è in grado di aggrapparsi come il cucciolo delle altre antropomorfe ma non è capace nemmeno di tenere su la testa. Secondo il dettato darwiniano la conclusione è presto detta: senza una controlaterale vocazione epimeletica la nostra specie si sarebbe estinta. Già, ma come l’acceso predatorio di un gatto gli rende irresistibili palline e freccette del mouse, così la forte motivazione epimeletica ci rende vulnerabili verso le forme giovanili, anche quelle di altre specie. Insomma di fronte a un cucciolo siamo presi dalla tenerezza, ossia dalla voglia di adottarlo, accudirlo e dargli da mangiare, al punto tale che anche i bambini, davanti a un animale, la prima cosa che fanno è porgergli del cibo.

È verosimile che sia stata proprio la tenerezza il grande interprete della domesticazione e non un calcolo di utilizzo, come lasciato trapelare in filigrana dall’approccio zootecnico. Del resto è molto difficile spiegare maternaggio e svezzamento buccale al di fuori di un comportamento parentale. Si tratta di ribaltare un luogo comune che vede il maschio umano cacciatore indomito protagonista della cattura e dell’asservimento degli animali.

In realtà furono le donne a dar avvio alla domesticazione, aprendo la strada a un processo di ibridazione con il non umano che ci ha trasformato alla radice, fino ad arrivare al cyborg postmoderno raffigurato da Donna Haraway come condizione esistenziale della contemporaneità. La domesticazione sarebbe stata perciò un effetto collaterale del nostro virtuosismo nell’ambito della cura, una tendenza che di fatto ci ha aperto alla contaminazione del non umano. Se l’antropologo Lévi-Strauss ebbe a sostenere che l’animale è prima di tutto “buono da pensare”, altri studiosi come Marvin Harris e il già citato Jared Diamond sono arrivati a riscrivere la storia dell’umanità attraverso le diverse partnership con gli animali domestici dove la domesticazione del bovino ha reso possibile lo sviluppo della meccanica e la domesticazione del cavallo è stata la prima forma di globalizzazione.

La cultura rurale, pur nelle diverse trasformazioni che l’hanno caratterizzata, vedeva una profonda promiscuità tra l’uomo e le altre specie, al punto tale che molti fisiologi hanno riscontrato l’importanza della cosiddetta immunità incrociata, vera e propria vaccinazione ante litteram che ha permesso all’uomo di mettersi al riparo da particolari malattie infettive. Infatti alcuni virus che colpiscono gli animali, come quello della peste bovina, non danno una patologia nell’uomo ma provocano in lui una risposta immunitaria capace di far fronte ad altri virus che colpiscono l’essere umano.

Con la rivoluzione urbana del Novecento l’uomo ha divorziato dagli animali domestici, molti dei quali sono finiti negli allevamenti intensivi, veri e propri lager che hanno tolto loro la luce del sole, l’aria aperta, la possibilità di movimento e per converso hanno costellato la loro esistenza di terribili vessazioni. Ad accompagnarci nelle metropoli convulse sono rimasti solo il cane e il gatto, privilegiati solo in apparenza, perché di fatto relegati ad una vita che ha ben poco delle soddisfazioni richieste dal loro etogramma. Un luogo comune vuole che l’antropomorfizzazione dei pet vada considerata una grossa elargizione per loro e si usano termini come viziare o coccolare, quando al contrario il più delle volte si tratta di veri e propri maltrattamenti.

Del resto secondo la tradizione disneyana, che bene o male ha formato tutte le generazioni a partire dagli anni ’50, gli animali sono solo delle maschere sotto cui agisce una personalità umana. Questo non ci permette di capire che in fatto di percezione del mondo, di modalità comunicativa, di interesse e di rituali comportamentali ogni specie ha i suoi tratti distintivi e merita di essere rispettata come tale. E tuttavia è vero che gli animali domestici rappresentano l’ultimo contatto con una realtà non umana che abbiamo rifiutato e allontanato ma di cui abbiamo bisogno per costruire le qualità più autentiche della nostra dimensione umana.

Per conoscere meglio le specie che hanno accompagnato l’umanità nel suo accidentato percorso storico, si può leggere ad esempio il saggio di Renato Massa Gli animali domestici, edito da Jaca Book. Come sottolinea l’autore, conosciuto al pubblico italiano per i numerosi articoli e saggi sul rapporto tra l’uomo e la natura, “gli animali domestici sono spesso, se non le uniche, le principali forme di vita senziente che incontriamo con facilità intorno a noi”.

Se questo è vero, non è così scontato che li sappiamo realmente individuare. Apprendere le caratteristiche degli animali domestici, saperli riconoscere, in un contesto culturale fortemente influenzato dai media, ove è più facile conoscere la fauna della savana africana piuttosto che distinguere una capra da una pecora o un asino da un pony, ove per i bambini i Pokemon e i Gormiti sono diventati i nuovi animali, non è di secondaria importanza. Troppo spesso assistiamo alla corsa per il possesso di animali esotici e selvatici, dai pitoni alle iguane, ignari del fatto che mentre per un animale domestico la relazione con l’uomo è nelle sue corde per un animale selvatico si tratta sempre di cattività.

Saperne di più sui tratti che distinguono un animale domestico da quelli di uno selvatico, attraverso le righe del saggio del professor Massa, è indubbiamente un’urgenza del nostro tempo. Anche perché se l’etologia ci parla di animali non più come di automata di cartesiana memoria ma come di esseri senzienti, ovvero dotati di una mente e di un pensiero è conseguente un profondo slittamento etico circa il modo con cui l’essere umano si rapporta a loro. Se l’animale domestico ha diritto alla cura responsabile dell’essere umano, l’animale selvatico ci chiede di lasciarlo vivere nel suo ambiente.

Roberto Marchesini

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Eleonora Adorni

Eleonora Adorni è membro della redazione del Centro Studi di Filosofia Postumanista e si occupa di aggiornare i contenuti del sito.

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